un racconto di Giorgio Michelangelo Fabbrucci
Rosso e oro. Ad altitudini estreme, sul profilo illuminato di un masso che pareva uno scoglio bagnato da nuvole. Nessuna ombra o tepore. Il vento spazzava il candore delle cime acuminate.
Alzò di scatto il busto e ruotò la piccola testa, scuotendosi dal sonno. Spalancò gli occhi e strinse le pupille. Due dischi neri circondati da due dischi gialli, entrambi perfetti, brillarono. Un lezzo mortale penetrò i suoi fori. Narici. Gridò. Molti la sentirono e fuggirono via.
Reclinò il capo all’indietro e la nuca sfiorò una protuberanza arrotondata e fredda. Mosse le dita, serrandole. Poi le rilasciò: ritmicamente, mollemente. Poi fece il medesimo gesto per ogni singola falange. Si toccò i palmi con i polpastrelli. Morbidi e lisci. Aprì gli occhi e si stupì. Il suo corpo. Muscoloso e giovane e roseo nonostante il tempo, nonostante il gelo. Strinse i pugni, irrigidì gli avambracci e tirò verso di se, inarcando di poco la schiena, impuntando i talloni, dilatando le vene che disegnavano righe a fiumi sulla pelle. Le catene rimasero strette ai polsi. Brillarono. Gridò. Molti lo sentirono e volsero lo sguardo a lui, ancora una volta.
Controllò. Dapprima negli immediati paraggi. Poi scrutando l’orizzonte, osservando con sospetto ogni accenno di mossa. Tutto sembrava immobile seppur nel vento, un richiamo più alto, scuotesse il cuore e le cave ossa. Un flebile accenno di resistenza. Gli artigli stretti ai rami secchi, intrecciati a cesta. Ecco i suoi piccoli: prole morta affamata, dagli occhi spalancati e grigi; bacche invecchiate, spente. Ossa come gemme d’arbusto l’inverno, appiccicati batuffoli sbiaditi. Implumi. Uccelletti di polvere che dei vermi erano il banchetto. I becchi, color del grano ammuffito, quasi si staccavano. E lei immaginò. Coccolò il pensiero di riempirsi la bocca di quei muti invertebrati, vedendoli contorcere come crine al fuoco, per posarli piano nei giovani becchi chiassosi; e poi osservali: zampettare storti, claudicanti, con le ali ossute, a spiccare il primo volo incerto, come docili farfalle. Eppure rinunciò, come in mille e più soli antecedenti.
Così l’Aquila del Caucaso spiccò il volo.
Scrutò con lo sguardo la volta celeste, a intercettare l’arrivo della sua maledizione. Non vedendola giungere grattò con il mento la base del collo, mentre con il volto componeva le smorfie più assurde. Lo faceva spesso all’alba. Rifletteva sulle maschere e sui teatranti. E così si vedeva lui. Protagonista. Un palcoscenico cigolante. La divina follia. Perché a intrattenere gli immortali ci vuole il sangue e la giusta smorfia. Quella che annulla i lineamenti, che quasi li scioglie, vibrando sull’epitelio un urlo disperato. Avrebbe tenuto questo spettacolo per se, allenando il volto ad ogni posa nascosta; rilassando i muscoli delle guance, della fronte, degli occhi. Interpretava con anticipo la maschera dell’atroce, cosicché ore dopo avrebbe offerto solo risa, insulto e svenimento.
Coccolò il pensiero di riempirsi la bocca di efferate blasfemie, che avrebbe sputato alle nuvole ore dopo, come ossa masticate e grasso di gallina bollita.
Eppure rinunciò. Così il preveggente guardò indietro, alla beffa del bove.
Un alito di fuliggine saliva grigio da una capanna dal tetto di sterco. Vi erano pietre nere e grandi disposte a cerchio. Rami piccoli alla base, e grossi ciocchi roventi. Un coniglio girava impalato, lento, abbrustolito. Una vecchia donna ne curava la cottura mentre le fiamme disegnavano differenze tra le sue rughe. Una piccola donna la guardava attonita, seduta, coperta di pelli malconce. Pregava in silenzio il nome del dannato e non sapeva il perché. E’ cosa buona e giusta, – disse l’anziana – é veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di nutrimento rendere grazie, sempre e in ogni luogo a te, signore dell’uomo. Poi tacque e prese la bestia cotta, la sfilò dal palo di bronzo, ne staccò la testa e la ruppe con la punta di una lancia. Poi prese il resto del corpo, lo spezzò, lo diede a sua nipote e disse: prendine e mangialo tutto, questo è il frutto buono del Fuoco, creato e non generato da colui che si è sacrificato per la salvezza dell’uomo. La giovane donna prese la piccola preda e ne mangiò.
Vibrarono le piume brume sotto i pugni del vento, mentre si aprivano le ali più grandi del mondo. Tutti i viventi alzarono il capo. Persino una formica. E voltandosi al cielo, i cuori di ogni dimensione e forma iniziarono a rullare all’impazzata. E coloro che per natura erano ciechi o vivevano nel sottosuolo, tremarono ugualmente, poiché l’ombra della predatrice volante attraversava come un pugnale silenzioso la carne del creato. Si, era proprio lei, – si dissero i viventi – l’incontrastata regina del cielo.
- Nonna, perché è inchiodato sul monte? – chiese la giovane donna, la cui bocca risplendeva nell’unto delle carni cotte e i cui denti erano impiastricciati dalla gustosa carogna. L’anziana donna, pose il cranio spezzato della lepre tra le gambe. Con due dita raccolse gli ultimi resti del cervello. Deglutì, osservò la nipote e disse – forse, per salvare l’umanità, bisogna sacrificare un Dio.
Le ali fendevano l’aria, sibilando. Poi d’improvviso planò, inclinando di poco il busto su un lato, muovendosi sulla traiettoria di una spirale, come fosse ancorata ad un filo invisibile di cui era il capo celeste e il cui termine coincideva con un perno inchiodato a terra: la vittima.
La percepì. Piccola. Lontana. Un puntino nero e lentissimo. Una mosca che ronza ipnotizzata intorno ad una mensa abbandonata. Chiuse gli occhi e con la coscienza esplorò ogni spazio della sua materia. Ogni organo, ogni cellula era adesso pronta a soccorrerlo. Cercò di posare la lingua sul fondo del palato, dicendo a se stesso che da lì non si sarebbe mossa. Serrò i denti, sentendo gli incisivi stridere, fino a provar fastidio alle gengive. Protese la mandibola in avanti, impuntò i talloni a terra, chiuse i pugni e deglutì.
Stroncò il solenne volteggio, precipitando frenetica. Rilasciò le zampe. Sobbalzò. Dondolò. Protese il capo inarcando le ali, lasciando che venissero catturate dal vento, inseguendo la sua scia.
La sentiva. Vicina. Un dardo feroce. Il suono soffice delle piume confuso nell’aria.
Poi un fischio. L’impatto.
Gridò. Gli artigli entrarono nelle carni, lacerandole, per poi scuotersi in un movimento frenetico e continuo, strappandone i lembi, slabbrando le ferite fresche che già purulente vomitavano sangue scuro, scoprendo le interiora pulsanti e flaccide nelle quali lesto penetrò il becco acuminato che dapprima pungeva, per poi tagliare e sventrare le profondità dell’uomo, facendosi strada nel costato, fino a permettere alla testa della bestia invasata di trionfare sugli organi. E lui tremava e tremava e piangeva, scuotendo le catene, tagliandosi polsi e caviglie, inghiottendo le urla soffocate, come se in bocca trattenesse una spugna imbevuta d’aceto, mentre la bile fluiva con una pressione disperata fino agli occhi, tingendoli di ocra, rilasciando il proprio umore acido nel palato per poi provocare un urto, la nausea, uno spruzzo di vomito e poi un altro ancora, un nodo lancinante al ventre, mentre il capo perdeva equilibrio e ciondolava nel vuoto e nello smarrimento e l’aquila dalle piume lorde di sangue e di brandelli d’interiora, strappava il suo premio color del vino e del livore.
Rosso e oro. Lo si poteva vedere lassù, stagliarsi contro la volta celeste. Il profilo illuminato dal Sole calante. Il corpo ferito, svenuto. Il capo stravolto e abbandonato. I capelli sporchi gocciolare sudati. I polsi, le caviglie e i piedi tumefatti.
Ecco Prometeo, il salvatore del mondo.
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