Quelle dei piedi” Bilbo Baggins
i.
Heine Borel, svegliatosi una mattina dopo sogni agitati, si ritrovò nel suo letto, con la schiena contro il materasso, trasformato in una pianta. Riposava sul suo fusto verde, arcuato, pieno di gemme che sembravano ricurve, sotto le lenzuola. A fatica riusciva a tenere la testa, o quello che era diventata, fuori dal lenzuolo. Le gambe, sottili da far pietà, rispetto alla sua statura normale, erano diventate radici, avrebbe voluto farle tremolare confuse senza pietà.
Chiamò la madre nella stanza e le spiegò cosa gli era successo, a mezzogiorno aveva già perso la vista, poco dopo ebbe fame.
ii.
«Non voglio nessun dottore» urlava Heine quando la madre, sulla soglia della stanza ancora semibuia, chiedeva il permesso di chiamare un medico specializzato in eventi di questo genere, se mai ne sia esistito qualcuno. La madre di Heine, Hannah, era una vecchietta timorata di Dio, poco istruita, piuttosto semplice come persona. Aveva, questo è certo, fatto le scuole dell’obbligo, ma, sposatasi, aveva deciso di consacrare tutte le sue energie alla cura della progenie. Se ne stava, dicevamo, minuta minuta, grigia e timorosa, sulla soglia della stanza, senza sapere realmente cosa fare – anche perché Heine continuava ad urlare di non aver bisogno di aiuto. Per un corno: i fatti mostravano il contrario.
Heine, il suo secondogenito, nonché ultimo figlio, maturata l’età legalmente necessaria per farsi una famiglia, prese a lavorare per fuggire di casa, forse in uno slancio di eccessivo dinamismo. Si trasferì in un albergo dove iniziò a condurre una vita di un certo tipo. Nulla di eccessivamente audace: pochi mesi dopo, aveva appena venticinque anni, preferì ai lussi e alle agiatezze della ristorazione alberghiera la vita monotona e la fatiscente salubrità dell’aria di una prestigiosa clinica per anziani. All’ospizio aveva tutto ciò di cui abbia veramente bisogno un uomo adulto per vivere, sopravvivere, in semplicità e gioia: un prato erboso su cui camminare, aria aperta, voci soffuse, sussurrate, colli nella penombra di tiepidi tramonti, soprammobili e centritavola.
Quando suo padre, cotto d’Alzheimer, si ammalò più gravemente, finì per decidere con il fratello più grande e la madre, ormai anziana, che fosse il caso di trasferire il vecchio Borel in una clinica accogliente: se lo fece mettere due camere a fianco alla sua. Non ci vollero che un paio d’anni, passarono tiepidamente, come i santi che si alternano sul calendario, affinché il signor Borel riuscisse a morire, senza neppure provare a conservare a lungo l’ultimo respiro. Heine, vedendo la madre affranta, stopposa e unta come ogni vecchia, al funerale decise, accordatosi con il fratello maggiore, di ritrasferirsi nella casa d’infanzia, un villino nelle Marche. Rientrandovi per la prima volta dopo molti anni, posò il cappello sull’appendiabiti all’ingresso e si lasciò scricchiolare il parquet sotto i piedi. In cucina silenziosamente, vestita da festa, la madre aveva messo a bollire il tè. Paradossalmente puzzava di vecchio più quella casa che l’ospizio, dopotutto la candeggina tira via le puzze tipiche dei vegliardi.
Si sedette sulla poltrona che era stata la preferita, in salotto, era piccola, e s’interrogò sull’uso che avrebbe potuto fare del tempo libero, ormai non più scandito da ortopanoramiche, minzioni, avemaria, bricolage e sedativi. Gli hobby rappresentano ciò che si è, oltre al proprio lavoro, e Heine, come suo padre, non aveva intensione alcuna di coincidere con un mestiere. Dopotutto non conosceva molta gente, non incontrava persone per strada, per caso o per appuntamento: nessuno gli chiedeva “come va”, “insomma cosa fai nella vita”, “cosa mi avevi detto che facevi per guadagnarti da vivere”. Heine così passava senza disistima le giornate a far scricchiolare il parquet. Ma il suo passatempo preferito divenne ben presto di gran lunga spostare i quadri appesi alle pareti. Se qualcuno mai glielo avesse chiesto, Heine Borel si sarebbe descritto come un muro: c’è sempre spazio per appendere un quadro. Pensava, dopotutto, che è più facile creare una relazione sentimentale con un oggetto, piuttosto che impelagarsi in slanci di posticce opportunità con un mammifero. Anche questo è un dato di fatto.
iii. visita fiscale
Quasi due anni prima Heine era stato costretto dalla signora Borel a lavorare, affinché il suo corpo potesse rafforzarsi – era infatti Heine un tipetto piuttosto frollo, di quelli che non ci scommetteresti molto sopra. Vinse un posto per impiegato.
Così, sebbene non fosse stato chiamato nessun medico, dopo appena una settimana comparve sulla soglia dell’appartamento il medico fiscale. Heine rimase piuttosto perplesso, steso sul suo lettuccio. Il medico era appena arrivato e ancora non aveva avuto modo di visitare il paziente, la signora Borel cercava in tutti i modi di avvisare il dottore circa la gravità della situazione, ma quello sosteneva di averne già viste di ogni tipo… «Sono stato anche a Chernobyl io, sa?». Spalancò la porta, dentro la stanza del poveretto c’era un certo afrore lercioso, che aiuto il medico nel lento incedere regale dello svenimento. La signora Borel, con quel poco di forze che aveva in grembo dovette trascinarlo fuori dalla stanza del figlio, con gran fatica, mentre Heine si rammaricava tanto di aver sconvolto così il poveretto, semplicemente mostrandogli la propria condizione. Si ripropose di mandargli una lettera di scuse, ma non servì: il giorno dopo quello si ripresentò con la fidanzata, tanto per farsi quattro risate. Si misero a ridere a crepapelle, dimenando in aria i loro indici molesti e vessatori, beffando con sgarbo il fusto legnoso di Heine che, indignato e offeso, non poté che rimanere in silenzio, borbottando qualcosa fra le foglie, ammutolito per tanta ignoranza e paonazzo per l’oltraggio.
La sera stessa, inferocito, convocò la madre con un urletto vegetativo: decise di scrivere al medico una lettera per fargli notare certi atteggiamenti inappropriati e poco professionali. Non avendo ancora chiaro in testa che tipo di lettera voleva inviare, ne provò alcune, senza sosta, diverse una dall’altra per tono: una cortese, una più audace, alcune mediocri e talune addirittura ridanciane. Alla fine, esausto, decise di non mandare proprio niente. Ma se solo lo avesse rivisto, lo avrebbe apostrofato in un certo modo che non se lo sarebbe dimenticato facilmente.
Il giorno dopo, manco a dirsi, il laureato tornò per scusarsi, bussò umilmente con il cappello in mano, ad aprirgli la porta sempre la signora Borel, che non poté far altro che mettersi da parte, disperatissima per il figlio tramutato. Il dottore tirò fuori dalla macchina con una sacca di terra buona, offrendosi di dare una mano per un eventuale travaso. Heine alla fine si rabbonì e lo perdonò.
La signora Borel interrogò il medico sull’origine della patologia. Questi illustrò la sua ipotesi: Heine era stato, quella notte infelice, colpito da una grande quantità di radiazioni che avevano indubbiamente invertito l’evoluzione normale della specie. Era tornato allo stato vegetale. «Meglio così che scimmia». Spiegò che probabilmente non c’era soluzione «forse il tempo… chissà…» osservò pensoso.
«Probabilmente» disse uscendo dalla casa «starà meglio con un po’ di sole».
iv.
Più i giorni passavano più, come è solito essere per ciascun altro uomo, Heine Borel si adeguava alla sua nuova situazione. Si abituò, con qualche fatica, perlopiù questioni di orgoglio, a nutrirsi senza mangiare, in realtà senza rendersene conto: fagocitava il cibo che la madre gli poggiava sulle foglie.
La storia del vaso era proprio una stronzata: dentro, per ora, era ancora un essere umano.
Piano piano, però, le percezioni più umane gli vennero meno. Gli restò una costante sensazione di piacevole torpore, di ebro stordimento: accettò di buon grado il leggero pizzicolio che, verso mezzogiorno, esposto alla luce del sole che trafiggeva la finestra, provava lungo tutte foglie clorofillanti. Aveva sempre più l’impressione di non avere forma né grandezza né profondità − d’altra parte, come ogni pianta, aveva bisogno solo di acqua e calore.
Il processo involutivo di Heine, dopotutto, non è altro che il compimento fisico di un procedimento intellettuale, la semplificazione delle relazioni e delle abitudinarie attività. Divenne l’essere vivente più felice sulla terra: ogni cosa era piacevole, ogni cosa lo inebriava.
v.
Una notte Heine si svegliò di soprassalto e, prima di riaddormentarsi, si sentì profondamente umiliato, si vergognò profondamente, convinto com’era, come era successo nel profondo della sua mente, in un sogno, di essersi fatto la pipì addosso. Quando poi si svegliò di nuovo, a mattina fatta, allora, non sì stupì, ricordando il sogno, della voglia immonda che aveva. Chiese alla madre di mettergli al polso il suo vecchio orologio. Quella poveretta non ne capiva il motivo e chiese, ma Heine, per quanto possibile, urlò con ostinazione di volere al polso l’orologio, punto e basta. E la vecchia, sconvolta com’era ormai da tempo, glielo legò su un ramo, quello che riteneva un buon candidato ad essere stato un braccio.
Nel pomeriggio la situazione non migliorò affatto (la madre aveva capito che quella, per Heine, non era una buona giornata, e quindi neppure per lei − così cercava di stare lontano dal figlio, spiandolo di nascosto, con amor di madre, rimanendo al più nascosta dietro l’asse della sua porta, per tentare di capirci qualcosa – ma è difficile fare finta di niente, quando un figlio-pianta ti chiama). La vecchia Borel, già con il cappello in testa, si recò timorosamente dal figlio per avvisarlo che usciva, andava a fare un pochino di spesa (con il fatto che Heine fagocitava qualsiasi alimento gli venisse posato sulle foglie, la madre non sapeva mai quando considerare il figlio sazio, così lo riempiva a più non posso, cercando di essere una buona madre, cercando di non vedere il figlio morire di fame, deperito − una notte, addirittura, si era svegliata con dei sensi di colpa mostruosi e, dopo essersi rivoltata fra le lenzuola sul materasso più volte, si convinse ad alzarsi e prendere qualcosa nel frigo, da poggiare sulle foglie del figlio, che beatamente dormiva).
«Heine, tesoro, io vado a comprare qualcosina per cena»
«Vengo anch’io»
«Cosa dici Heine, non ti sento»
«Vengo anch’io!»
«Come? Come fai? Non è possibile, abbi pazienza»
«Mi metti sulla carriola!»
«Ma Heine…»
Nella carriola, dentro un vaso colmo di terra, alla fine, il figlio. Hannah era convinta che tutti per strada l’avrebbero guardata male, ma invece non accadde niente: dopotutto, era solo una vecchietta in un centro commerciale con una pianta appresso.
Magari veniva da un fioraio, o si sentiva tanto sola, e la pianta le faceva compagnia.
La signora Borel, tuttavia, commise un errore imperdonabile. Salendo le scale mobili, ormai era quasi al termine, lasciò per un istante la carriola, giusto per asciugarsi la fronte sudata. Bastò un attimo: la carola iniziò la sua corsa all’indietro, travolgendo la vecchietta, fino a capovolgersi. Il vaso uscì fuori dalla carriola di gran carriera e rotò fino a toccare terra, frantumandosi.
Heine, che si era fatto tutte le scale mobili rotolando, portandosi appresso la vecchia madre, che, a seguito dell’incidente, ebbe il femore rotto e una costola incrinata, si ruppe più di un ramo. Fu così che perse l’udito e ogni forma di voce.
vi.
Da quel momento, per un po’ di tempo, e fino alla primavera, Winsome, il fratello maggiore di Heine, si trasferì nel villino delle Marche per dare una mano alla vecchia madre, allettata per le fratture, per assisterli come civiltà impone. Quando lo vide trasformato, non poté fare a meno che chiedere all’ex moglie di portargli il figlioletto di sei anni, per fargli vedere cosa era diventato effettivamente lo zio.
Per poco il bambino non ci perse una mano.
Heine non poteva controllare cosa mangiare, ovvero, qualsiasi cosa gli venisse poggiata sulle foglie, lui la mangiava. Il bambino trovava la cosa incredibilmente affascinante: gli fece mangiare il portafoglio del padre, il sua astuccio di scuola, delle sigarette (che procurarono al povero Heine un gran prurito e delle chiazze giallognole lungo tutto il dorso) e un paio di forbici. Il bambino, con gran disattenzione, tuttavia, finì per poggiare la sua mano sulla foglia più grande di Heine. Immediatamente se la sentì inacidire, venir inglobata, per finire chissà dove, sotto la potente morsa dei cloroplasti dello zio. Il bambino si mise ad urlare a più non posso, Winsome, allertato, corse nella stanza del fratello e con un veloce taglio di coltello strappo via l’intero ramo di Heine. Emise un grido fortissimo; immediatamente dalla ferita uscì fuori guizzando quello che sembrava tessuto muscolare umano, velocemente si andava allacciando in lunghezza, crescendo velocemente rioccupò lo spazio del ramo che sostituiva, ne crebbe sopra, in meno di un baleno, del legno rugoso.
La signora Borel si ristabilì poco dopo, in quegli stessi giorni dai rami di Heine spuntavano, dalle gemme già nate, i primi fiori. Winsome, salutando il fratello, prima di andarsene finalmente con il figlio, per tornare nella casa nella quale abitava, si chiese se fosse lecito rubare dei semi al fratello, giusto per vedere cosa sarebbe successo. L’idea che quei semi avessero un legame segreto con il precedente sistema riproduttivo del fratello riuscì tuttavia a farlo desistere dal desiderio di tanta scienza.
vii.
Il desiderio sessuale è in proporzione alla capacità dei propri genitali, oltre che alle disposizioni della propria razionalità. Heine Borel era cosparso di fiori che, malgrado vengano fatti disegnare ai fanciulli come fossero la cosa più pura, non sono altro che numerosi organi genitali. Fremeva dalla voglia di spargere il suo seme, e la madre dovette accorgersene, perché, sempre più copiose, le api infestavano la casa.
Quando capì arrossì tutta, e decise, intuendo i desideri del figlio, trasportare Heine fuori, in verande, affinché le api potessero trastullarlo, prendendone il polline. Heine non aveva mai provato tanta gioia nel coito: se l’orgasmo, così forte nell’uomo, diffonde l’appagamento nel solo pene, immaginatevi cosa può essere per una pianta quale Heine, essere sfiorata da tante api tutte insieme. Ebbe un orgasmo in ogni punto del suo corpo, solleticato com’era. Si sorprese fino a commuoversi per tanta inaspettata gioia.
v.
Qualche psichiatra avrebbe suggerito, anni dopo, che Heine Borel aveva conciliato, tanto grande era la sua ricerca di ordine, il suo corpo con la sua essenza interiore.
L’uomo comune si strugge, e finisce per modificare il proprio corpo con variazioni dipinte, accenti e tonalità. Ma lo spirito resta intatto, al più si scalfisce, appena appena: la perdita dei sensi e la modifica delle forme, non viene, almeno oggi, etichettata come cosa importante, e allora sembra di essere felici, percependo tuttavia che non c’è forma, né grandezza e neppure alcuna profondità.
Senza radiazioni, tuttavia, nessun uomo riesce a separare completamente la propria anima dal suo corpo gemello: trasformazioni per coerenza come quella di Heine, così teatrali, non esistono ancora, e se esistessero, sarebbero considerate vacillanti oscenità.
E allora? Cosa appare? Cosa resta?
Solo un miraggio, onde e radiazioni, il desiderio di coincidere con la propria identità. Eppure è proprio l’ordine apparente, la calcificazione e l’inscatolamento o la voglia di poter vivere una settimana di bontà, a costruire il vero miraggio degli osceni.
Non c’è veramente bisogno di onde e radiazioni. Manca solo uno spunto, qualcosa che contenga lo stimolo necessario per capire che si ha solo voglia di morire − manca il primo passo, un’ennesima cilecca, la soffice perversione dell’aria condizionata che non va: è l’eccezione, un momentaneo di perversa eccessiva radioattività, e poi la vita trova modo di confermare qualsiasi volgare fatalità.
Venne il vento che porta via le foglie, finì un ciclo, e con esso Heine, conciliato, morì.
___
racconto inviato e scritto da Tristram M.Lipschitz
30 novembre 2011
Feccia, merda, poesia. Lipschitz ricorda le atmosfere di CeccHi e pampaloni con l’humour nero di Franco Bianchicci. Da rivalutare.
8 dicembre 2011
Tempi dipteri e peripteri, per questa letteratura nazionale. Non stupisce, dunque, il mio atteggiamento esogeno: un rancore innato per datteri e agrumi nostrani.
Per quanto riguarda l’homour del Bianchicci, sappia che, come modelli cinematografici, ho sempre prediletto alla robetta di Cecchi e Pampaloni i più entusiasmanti fratelli Agro. Per altro, se avrà modo, le consiglio il film “La famiglia Flashback”, un maldestro connubio fra dieta a zone, picaresche repulsioni sessuali e scarpe da tennis prese in prestito.