Quando Holbrook Jackson pubblicò un libro sulla letteratura intorno al milleottocentonovanta, cercai subito nell’indice Soames Enoch. Temevo che non ci fosse. E non c’era. C’erano invece tutti gli altri. Scrittori che avevo completamente dimenticato, o che ricordavo appena, rivissero per me, con le loro opere, sulle pagine di Holbrook Jackson. Il libro era ad un tempo completo e scritto con stile brillante. Di conseguenza l’omissione che vi rilevai rappresentava una controprova quanto mai triste dell’incapacità del povero Soames di lasciare un segno in quel decennio che era stato suo.
Oso dire di essere stata la sola persona che si accorse di quest’omissione. Soames era proprio fallito nella più pietosa delle maniere! Ne vale a riscattarlo il pensiero che, se avesse avuto un briciolo di successo, sarebbe scomparso, come gli altri, dalla mia memoria, per tornarvi soltanto al cenno dello storico. È vero che se le sue doti, per quello che potevano valere, fossero state riconosciute mentre era vivo, non avrebbe mai concluso il patto che gli vidi stipulare… quello strano patto che ebbe il merito dì farlo restare sempre in primissima linea nei miei ricordi. Ma proprio da ciò è evidente quanto fosse degno di compassione. Non è, in ogni modo, la compassione che mi spinge a scrivere di lui. Per amor suo, poveretto, mi sentirei portato a non intingere la penna nel calamaio. È brutto irridere i morti. E come potrei scrivere di Enoch Soames senza renderlo ridicolo? O meglio, come potrei tacere la terribile verità che era veramente ridicolo? Non ne sarei capace. Eppure, alla fine, devo scrivere di lui. Capirete, a tempo debito, come non abbia scelta. E tanto vale, allora, che me la sbrighi adesso.
Nell’estate del ‘93, un bolide precipitò dal cielo su Oxford. Urtò contro terra a una velocità incredibile, sprofondando nel suolo. Insegnanti e studenti vi fecero cerchio attorno, piuttosto pallidi, e non parlarono d’altro. Da dove veniva, quel meteorite? Da Parigi. Come si chiamava? Will Rothenstein. Il suo scopo? Fare una serie di ventiquattro ritratti in litografia. Tali ritratti dovevano venire pubblicati dalla Bodley Head di Londra. Si trattava di una cosa quanto mai urgente. Già il rettore di A, il vicedirettore di B e il Regius Professor di C avevano umilmente ” posato “. Vecchi dignitosi e barcollanti che si erano sempre rifiutati di posare non avevano saputo resistere a questo piccolo e dinamico straniero. Non pregava: invitava. Non invitava: ordinava. Aveva ventun anni. Portava occhiali che balenavano più di qualunque altro paio di occhiali che si fosse mai visto. Era un vulcano di idee. Conosceva Whistler. Conosceva Edmond de Goncourt. Conosceva tutti a Parigi. Sapeva tutto di tutti. Era una specie di Parigi a Oxford. Si mormorava che, non appena terminata la sua scelta fra gli insegnanti, avrebbe incluso qualche studente. Fu un gran giorno quello in cui io, proprio io, venni preso in considerazione. Rothenstein mi piaceva ma, allo stesso tempo, mi incuteva timore, e nacque tra di noi un’amicizia che si è sempre andata rinsaldando con il passare degli anni e che ho sempre tenuto in maggiore considerazione.
Al termine dell’anno scolastico si stabili a… o meglio meteoricamente, in… Londra. Fu a lui che dovetti la mia prima conoscenza di quel mondo minuscolo, per se stante, incantevole, che è Chelsea e i miei primi contatti con Walter Sickert e con altri illustri anziani che vi abitavano. Fu Rothenstein che mi portò a trovare in Cambridge Street, a Pimlico, un giovane i cui disegni erano già celebri fra pochi eletti, un giovane che rispondeva al nome di Aubrey Beardsley. Con Rothenstein feci la mia prima visita alla Bodley Head. Fu lui a introdurmi in un altro cenacolo dell’intelletto e dell’ardimento: la sala del domino del Café Royal.
Là, in quella sera d’ottobre, in quel quadro esuberante di dorature e di velluti rossi, fra quegli specchi che si fronteggiavano e le cariatidi che li reggevano, fra il fumo del tabacco che si levava verso il soffitto dipinto e pagano, fra il mormorio di una conversazione presumibilmente cinica, bruscamente interrotta ogni tanto dal rumore secco dei pezzi del domino rimescolati su tavolini di marmo, trassi un profondo respiro e dissi a me stesso: ” Questa si che è vita! “
Era l’ora che precedeva la cena. Bevemmo un vermouth. Quelli che conoscevano Rothenstein lo additavano a quelli che lo conoscevano soltanto per nome. Continuava a entrare gente che passeggiava avanti e indietro, in cerca di tavolini liberi o di tavolini occupati da amici. Uno di questi vagabondi si accaparrò la mia attenzione, perché ero sicuro che voleva richiamare su di sé l’interesse di Rothenstein. Era passato due volte davanti al nostro tavolino, con un’aria incerta, ma Rothenstein, che aveva attaccato una lunga disquisizione su Puis de Chavanne, non lo aveva notato. Era un uomo curvo, goffo, abbastanza alto, molto pallido, dai capelli piuttosto lunghi con una sfumatura castana. Aveva una barba rada e sottile, o meglio, sfoggiava sul mento un certo qual numero di peli che si arricciavano in ciuffi radi quasi a nasconderne l’aspetto sfuggente. Era un tipo dall’aria strana, ma ho l’impressione che intorno al milleottocentonovanta i tipi dall’aria strana fossero molto più frequenti che non oggi. I giovani scrittori di quell’epoca (e il mio uomo era uno scrittore, ne ero sicuro) lottavano strenuamente per distinguersi da tutti gli altri. Il mio uomo, però, aveva lottato senza, successo. Portava un cappello nero e floscio, di tipo clericale ma di ispirazione bohemienne, e un pipistrello grigio impermeabile che, forse proprio per il fatto di essere impermeabile, non riusciva a essere romantico. Giunsi alla conclusione che ” scialbo ” era il mot juste per lui. Avevo già cercato di scrivere, e badavo moltissimo al mot juste, questo Santo Graal del periodo.
L’uomo scialbo stava di nuovo avvicinandosi al nostro tavolino, e questa volta si decise a fermarsi. ” Non vi ricordate di me ” disse, con voce atona.
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Una novella di Henry Maximilian Beerbohm Continua Lunedì prossimo