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Leggo ora, con un certo ritardo, l’intervista resa da Alessandro Baricco al Venerdì di Repubblica del 28 ottobre scorso e la risposta di Antonio Moresco del 13 novembre, apparsa sul sito della rivista Il Primo Amore.
Leggo e non posso che concordare con le parole di Moresco.
Nutro per l’opera di Antonio Moresco, per il suo senso della letteratura, per la sua voce profonda e sempre acuta, una esasperata ammirazione. Ho avuto l’occasione di incontrarlo più volte e di scambiare con lui alcune battute sia a Bergamo che, recentemente, al festival della letteratura di Mantova, trovandolo un uomo disponibile alla relazione con gli altri, generoso con coloro che lo avvicinano. Uno scrittore che vive nel mondo, che non ne ha paura, che non lo disprezza ma che esercita il suo compito critico con occhio pietoso e senza pregiudizio.
Leggendo Moresco e parlandogli ho trovato conferma di quanto siano inutili allo scrittore l’orpello, la fama, il successo. Importa solo che lo scrittore svolga il suo compito che, stranamente disatteso in questi strani tempi, consiste nell’atto di scrivere.
Non voglio entrare nella polemica tra questi due esempi umani e letterari di scrittori.
Con queste righe intendo solo dare atto di alcuni pensieri che le parole di Moresco mi hanno suscitato.
Scrive Moresco per poi prenderne le distanze: “vedo che anche tu non fai che ripetere ciò che in questi anni dichiarano continuamente scrittori e teorici della letteratura e che è evidentemente lo spirito del tempo: che la letteratura non è più un’arte, che tu ti senti un calzolaio della parola e un orologiaio, che per gli scrittori non può esserci più grandezza, che oggi il genio lo si può vedere piuttosto in chi lancia l’Iphone, in chi apre un teatro, in chi fonda una scuola…”.
Con queste parole è sintetizzato il Tempo. Per ragioni sconosciute (o meglio, per ragioni ampiamente conosciute ma che sarebbe impopolare descrivere – mi asterrò per non provocare polemiche che non mi interessano) da anni, ormai, la società di questo paese è involuta in un gorgo di semplificazione dei confini. Da anni, ormai, coloro che hanno preso il posto di altri, ben più grandi di loro, riducono icasticamente il loro contributo in termini di semplicità, linearità, produttività, in spregio alla qualità.
E non è vero, per nulla, che questi tempi non abbiano prodotto grandi artisti, grandi scrittori, grandi politici, grandi professionisti, grandi critici. È vero invece che questi tempi li hanno ghettizzati in un angolo, come per anni è accaduto a Moresco, per permettere ai seguaci del semplice e dell’ovvio di imporre il proprio dominio in ogni settore della vita sociale.
Sì, forse è così. Ma perché?
La domanda è questa, perché?
La risposta non la conosco (né io né altri la conoscono). Certo è che è sospetto come questo aumento sconsiderato del “mediocre” come categoria delle umane attività e delle umane relazioni, sia coincisa con la messa in vendita dello spirito stesso dell’uomo, con il consumismo più sfrenato (leggasi “le cose”, di Perec).
Se vuoi vendere un prodotto devi individuare un target idoneo e se vuoi venderne tanti questo target non può che essere una massa informe senza individualità e senza specialità. Se vuoi diventare un cantante di successo devi rivolgerti ad un ampio pubblico che compri i tuoi dischi e che ti permetta di vivere nel lusso in cambio dei tuoi gorgheggi insensati. Se vuoi diventare uno scrittore di successo e vendere molte copie, in un paese che non legge, devi catturare il tuo pubblico che necessariamente non può essere composto solo da letterati e da persone che sanno leggere e distinguere ciò che leggono (parte minima della società).
È evidente che poi, nella tua lussuosa villa, tu, cantante di successo, non possa denigrare la tua opera, così tanto seguita ed amata. Perché farlo significherebbe insultare, forse giustamente, ma comunque insultare il tuo pubblico; proverbialmente sputare nel piatto dove mangi.
E quindi ti accasci sulla tua poltrona, commuovendoti con l’inno alla gioia della Nona, rimpiangendo che la vita ti abbia dato il dono (per te la condanna) di amare la bellezza ma di non saperla o volerla creare per incapacità o convenienza.
Per questo l’arte, per te, deve diventare altro. L’arte per te è il marketing, la tecnologia; per te i racconti sono le serie TV, i film di terz’ordine di trent’anni fa.
Se non la puoi raggiungere tu non lo deve fare nessuno. E quindi l’arte non è più dipingere ma assemblare cartoni di immondizia e chiamarli installazioni X 35; la letteratura non è più scrivere una grande romanzo ma un semplice e lineare racconto in cui un tizio uccide un sacco di gente e poi viene catturato da un poliziotto sagace ed affascinante (meglio se ben descritto con le illuminate fattezze di un attore celebre per ispirare qualche regista del salotto a fianco a farci un film, una serie. Ti accontenteresti anche di un cartone animato.
Questo è il nostro mondo. Sta a noi cercare di cambiarlo o accettarlo per quello che è, ritagliandoci il posto che preferiamo.
Con la nostra consueta ed indomita certezza che la verità non stia sulla superficie delle cose ma nel loro profondo interno cercheremo di non farci cogliere di sorpresa e di dare alle cose il loro vero nome, alle persone il loro vero valore.
Questa sola è la risposta che posso scrivere ora. La mia risposta.
Caro Antonio, la tua resistenza all’imposizione della semplicità, la tua fiera opposizione a chi della letteratura vorrebbe farne un mestiere come tanti, ci inorgoglisce di essere tuoi lettori ed ammiratori. Il tempo, alla fine, risolve ogni cosa, toglie ogni preoccupazione, relega nell’oblio ciò che deve essere relegato, innalza ciò che è grande.
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Marco Arcieri

[email protected]

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