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Dino Buzzati – Un Amore

una vecchia edizione del romanzo mondadori

“Un amore” di Buzzati è sicuramente un romanzo complesso e, a mio modo di vedere, stratificato, presentando molteplici chiavi di lettura e, di conseguenza, significati più o meno evidenti.
Non posso nascondervi un certo moto di rabbia nel corso della sua lettura, quanto meno con riguardo alla prima metà, rabbia causata, come in occasione della recensione di “Memoria delle mie puttane tristi” di Garcia Marquez, da quest’esaltazione letteraria di amori malati e perversi, prodotti da umane debolezze e storture caratteriali. So di dire una cosa banale, ma ho sempre immaginato l’amore (e ancora adesso lo immagino) come una pianta che cresce spontaneamente, alimentata dai raggi del sole e dai nutrimenti della terra. E basta.
Qualcosa di genuino, semplice, non corrotto.
In questo romanzo di Buzzati non vi è nulla di genuino e spontaneo, tolti gli slanci emotivi del protagonista, il quarantanovenne Antonio Dorigo, verso la ventenne Laide, di professione prostituta. Ma anche questi slanci, a ben vedere, nascono più dalle fragilità del protagonista legate all’andamento della propria esistenza, non da un’autentica propulsione affettiva.
Vi dicevo della mia rabbia.
In verità si tratta di un sentimento che solamente i lettori uomini condivideranno, poiché sono sicuro che le gentili lettrici, nel vedere il protagonista maneggiato come un burattino da questa ventenne immorale, sgarbata e nemmeno troppo carina, si spanceranno dal ridere. Detto proprio fuori dai denti, ammetto che per buona parte del romanzo mi sono letteralmente mangiato il fegato: “dai, adesso la lascia! Non può farsi trattare così! Reagirà prima o poi!” , continuavo a pensare.
Niente.
Antonio Dorigo subisce tutto passivamente, schiacciato da questo sentimento malato e distorto. Del resto, non potrebbe che essere così: giunto ormai alle soglie dei cinquant’anni, le giornate di Antonio trascorrono in maniera monotona e uniforme, divise tra il lavoro ed i week – end con gli amici. Il protagonista è il classico borghese della Milano Anni Sessanta: benestante, di bella presenza, con un lavoro gratificante, circondato da amici e famiglia.
Tutto perfetto, sembrerebbe.
Piccolo particolare: Antonio non ha mai avvicinato una donna in vita sua, ritenendosi sempre inadeguato e, per colmare il proprio tagliente senso di solitudine, ormai frammisto alla mesta consapevolezza dell’imminente vecchiaia, frequenta con regolarità le case di appuntamento.
Lì incontra Laide, e se ne innamora.
Da quel momento in poi, Antonio perde il controllo della propria vita: saltano regole, schemi e convenzioni; notte e giorno si confondono, il cibo non ha sapore, il sonno non è più necessario poiché ha dormito sin troppo, in passato. Nulla da dire: la spinta emozionale verso Laide è autentica, pur essendo marce le radici del sentimento.
Nel complesso, le emozioni trasmesse dalla prima parte del romanzo ricordano da vicino “Lolita” di Nabokov: come in quella vicenda, anche qui assistiamo alla sofferenza, fisica e psichica, di un cinquantenne polverizzato dall’insensibilità di una ventenne cinica e “di mondo”.
Al pari di Lolita, anche Laide dimostra una sostanziale indifferenza affettiva nei riguardi dell’uomo: indifferenza condita da scherno e umiliazioni, costantemente sopportate e maldigerite da Antonio. Tuttavia, a differenza di Nabokov, che si arresta a questo primo livello, Buzzati va oltre, ed è qui che si rivela il genio: non tutto ciò che sembra è, dopo tutto.
Antonio e Laide rappresentano due mondi all’apparenza inconciliabili, dietro cui i protagonisti rimangono morbosamente trincerati per buona parte del romanzo. Antonio è un borghese, e nonostante sia innamorato di Laide, non la emancipa dalla sua condizione di prostituta, perché le convenzioni sociali sono quelle e tali debbono rimanere. Nemmeno la potenza di un sentimento mai provato prima riesce a polverizzare certi schemi mentali: Antonio ama Laide, ma continua a trattarla da puttana.  Analizzata la faccenda da questo punto di vista, il mio iniziale moto di rabbia è sfumato, e ho cominciato (quasi) a solidarizzare con Laide, tutto sommato coerente con la propria natura, selvaggia e da sempre sprovvista di affetti autentici, e col mestiere che esercita.
Alla fine, pur con tutte le incognite del caso, questi due mondi troveranno un punto di incontro, addirittura una parvenza di equilibrio, insieme alla speranza di un futuro da condividere insieme.
Si può essere più o meno d’accordo sulla piega assunta dal rapporto fra Antonio e Laide (personalmente ho ritenuto un po’ forzato l’incipit di questa loro nuova vita) ma, senza ombra di dubbio, l’epilogo descrive magistralmente il confuso fluire, e fondersi, delle umane debolezze, fra incolmabili vuoti, frustrazioni passate e speranze future, tutte pervase dall’unico anelito che rende la vita degna di essere vissuta: quel semplicissimo rompicapo chiamato Amore.

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una recensione di Marco La Terra

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Author: Marco La Terra

Marco La Terra, classe 1977, vive il senso di alienità dell’epoca infausta in cui è recluso in modo viscerale e sofferente, cercando di rintracciare in tutto ciò che è “altro da sé” una forma spuria di logica superiore.

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3 Comments

  1. “il confuso fluire delle umane debolezze”… fantastico.

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  2. Grazie…!

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  3. Nonostante tu abbia spoilerato il finale mi hai fatto incuriosire. Due mondi così nettamente distinti possono trovare un sincero quanto impensato corso d’azione. Interessante!

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