Recensione di Marco LaTerra
Trilogia della frontiera, edito da Einaudi, è un’opera letteraria composta da tre romanzi, ovvero Cavalli selvaggi, Città della pianura e Oltre il confine: un viaggio appassionante, lungo i sentieri montuosi fra Messico e Stati Uniti, che accompagna il lettore per oltre mille pagine e che, alla fine, produce nello stesso la voglia di mollare tutto e partire.
Partire per fondersi con la natura, anzi, con la Natura, unico ed autentico Dio da rispettare e conoscere.
Ne sanno qualcosa i protagonisti di questi tre romanzi, legati fra loro da un unico filo conduttore: John Grady Cole e Billy Parham, giovani cowboys che affrontano innumerevoli viaggi, lunghi e faticosi, nel tentativo, più o meno consapevole, di armonizzare l’apparente disordine naturale delle cose e, di riflesso, ricercare la pace nei propri cuori.
Le vicende descritte lungo quest’infinita cavalcata nelle lande del selvaggio West, giunto oramai al crepuscolo, sono intrise di crudo realismo, frammisto a venature di fredda ed autentica violenza, strumento principe attraverso cui McCarthy dà voce al determinismo naturalistico che, inesorabilmente, prevale sugli sforzi compiuti dagli uomini per cambiare il proprio destino, immutabile perché già scritto.
Pur con diverse sfumature, John Grady Cole e Billy Parham incarnano due concezioni nettamente antitetiche dell’essere umano: in Cavalli selvaggi e Oltre il confine John Grady Cole, personaggio intenso, emotivo e raziocinante al di là di ogni logica razionale, cerca di cambiare la propria condizione esistenziale innamorandosi di due donne appartenenti a due realtà troppo distanti dalla sua.
Alejandra è una ragazza appartenente ad una famiglia ricca e di nobili origini, Magdalena una prostituta: in entrambe le situazioni, i sentimenti che scorrono fra i personaggi sono puri, lirici, autentici. In entrambe le situazioni, o almeno in una delle due, qualsiasi altro scrittore avrebbe costruito un epilogo benevolo nei confronti di John Grady, sicuramente un ragazzo positivo, sensibile ed assolutamente geniale nell’allevare i cavalli.
Non McCarthy.
Per comprendere la natura di John Grady trovo illuminante questo breve passaggio, tratto da Città della pianura: “Credo che tu possa addestrare un gallo a fare quello che vuoi. Ma non lo avrai veramente in pugno. Invece c’è un modo di addestrare un cavallo che, quando hai finito, ti fa sentire che lo possiedi davvero. Sei sul suo stesso terreno. Un buon cavallo immaginerà le cose per conto suo. E tu vedrai quello che c’è nel suo cuore. Lui non farà una cosa mentre lo guardi e un’altra mentre non lo guardi. No, lui è tutto d’un pezzo. Quando un cavallo l’hai portato fin lì, è difficile che tu riesca a fargli fare qualcosa che secondo lui è sbagliato. Si ribellerà. E a quel punto, se lo maltratti, il dispiacere può quasi ucciderlo. Un buon cavallo ha la giustizia nel cuore. Io l’ho visto, questo”.
John Grady è dunque un vaquero dotato della particolarissima abilità di saper capire la Natura e fondersi in essa, rispettarla ed amarla. È grazie alla propria spiccata sensibilità che riesce ad eccellere nel proprio mestiere ma, come tutte le qualità sublimi ed impalpabili, tale dote nasconde anche un rischio, rappresentato dalla sete di conoscenza verso altri mondi, assai lontani dal proprio, avvalendosi di questa dote che proprio la Natura gli ha elargito. L’amore per i cavalli, evidente rappresentazione di quest’ultima, non ammette deroghe o sconti nel momento in cui John Grady, tradendo l’impronta primordiale del proprio spirito, si invaghisce di donne troppo distanti, per cultura ed estrazione sociale, dall’essenza di se stesso: l’apparente disordine delle cose, cui cerca di porre rimedio, è in verità un ordine sublime ed intoccabile che si ristabilirà con veemente e inesorabile determinismo.
Così è scritto nelle pagine della Vita. Punto.
E Billy?
Billy Parham, protagonista di Oltre il confine e Città della Pianura, lancia il proprio guanto di sfida all’ordine naturale delle cose, cercando di rattoppare i lembi di quell’eterna ferita, chiamata Vita, con pazienza e dedizione.
Nonostante gli sforzi profusi, il lettore presagisce l’inevitabile fallimento, caratterizzato dalla violenta perdita di affetti familiari, sogni e speranze: non è un fallimento come un altro, tuttavia, bensì lo scotto da pagare per incedere nella conoscenza di Sé e della Natura. A fronte di dolorosissime perdite, Billy conosce la Vita e comprende il messaggio fondamentale che Essa intende trasmetterci: l’essenza della Vita è la Vita stessa, da affrontarsi quotidianamente, rinnovandosi e liberandosi di tutte le certezze passate, accettando un destino che, per quanto ci si sforzi a mutare, è già scritto.
Ormai settantottenne lo ritroviamo ancora in viaggio, solitario e senza un soldo: unico fra tutti i personaggi, principali e secondari, ad aver raggiunto la vecchiaia e ad essersi dissetato presso la fonte della conoscenza, appare malinconico e disilluso nel cuore, forte e deciso nella testa.
Un’antinomia che apre le porte della saggezza.
Billy ha capito ciò che doveva capire, ed attende la morte con coraggio e consapevolezza, senza paura.
Solitario e silenzioso, come soltanto l’uomo veramente saggio può essere.
Questi gli aspetti che più mi hanno colpito della Trilogia: la prosa di McCarthy è così intensa e di un realismo talmente vibrante da trasmettere al lettore, quasi per osmosi, sentimenti e sensazioni da cui è molto difficile liberarsi. Io stesso ancora adesso, mentre sto scrivendo, percepisco un inesorabile flusso emozionale, indefinibile nella sua essenza ma tangibile, trapassare dalla carta stampata entro le fragili fibre del mio cuore.
Questo flusso mi spinge a partire, senza ulteriori indugi.
Perciò scusatemi, si è fatto tardi, so che capirete: debbo andarmene, a questo punto.
Il crepuscolo avanza, la notte incombe, il freddo sale, e la strada da percorrere è lunga e sconosciuta.
Potrei fermarmi la notte e partire domattina, sarebbe la cosa più sensata.
Ma non sono un individuo troppo sensato.
Potrei anche decidere di fermarmi definitivamente, e non partire mai più, accontentandomi di ciò che ho, e di quello che i miei occhi possono vedere.
Ma sarei morto, in tal caso.
Eppoi, devo confessarvi, mi piace viaggiare di notte, in solitaria, con l’unica compagnia rappresentata dalla mia testa, dai miei pensieri, e dall’interrogativo legato a ciò che sarà, in futuro.
Dopo aver letto la Trilogia, piacerà anche a voi.
Ne sono certo.
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Marco LaTerra [email protected] VAI ALLO SPECIALE MCCARTHY!