Timbrò il biglietto, controllò che l’inchiostro si fosse impresso a sufficienza sul lato stretto del cartoncino e si strinse il nodo. Forse è davvero troppo piccolo, pensò. Amava le cravatte. Quelle Inglesi in particolare; strette al collo, sottili, magari senza punta. Spostò il suo sguardo sui colori ammaccati delle scritte a bomboletta, marchiate come il ferro la vacca sulle pareti del sottopassaggio pedonale. Chissà perché, si domandò. Prese le scale per portarsi sul binario e fu superato da due glutei bellissimi. Grassi filetti di salmone sottovuoto. Dieci anni per gamba e il sole del mattino scaldava ancora le parallele di acciaio sdraiate sulle pietre. Carni sudate. Vapori, profumo supermarket. Più in là una panchina scomoda. Una posizione invidiabile, al centro del lungo marciapiede d’attesa. Un posto a sedere, la faccia a sud est, tra decine di anime astanti cariche di zaini e cartellette e sacchi neri colmi di merce cinese. Così aprì un piccolo libro americano e allentò un poco il nodo. Per ogni pagina un minuto di ritardo. Ne lesse venti.
La frenata infastidì i timpani. Molto prima dello stop il fermento di decine di spiriti: tutti a disporsi lungo il marciapiede numerato, quasi fosse una meta, un orizzonte di salvezza; quasi si potesse fregare il tempo, accorciarlo, essere già sulla scrivania oppure in mezzo alla strada con la merce posata a terra o ancora a provarci con quella là, mentre si sgranocchia nervosi una biro carica di saliva schiumosa. Così si riassestò il nodo e si incamminò per ultimo, scoprendo con sorpresa che i vagoni vuoti in fronte a lui, erano di prima classe. Scelse l’imbuto di destra, lasciando passare prima le donne, graziose o chiatte che fossero, guadagnandosi gli sguardi commiserevoli di chi, in quella commedia, sbuffava l’alito del ritardo.
Mi scusi ma è sempre così, chiese. Silenzio. Solo una levata di sopracciglia, come di chi non commetta peccato, facendo spallucce con gli occhi. Qualcuno spinse la porta, con due mani, piegando di poco la schiena, tenendo il volto lontano dal vetro sporco. Lui fece poi capolino, come a curiosare in una stanza buia, illuminata da una timida striscia verticale di luce al neon. Fu il naso a comprendere. Nel buio peloso dei suoi vuoti esplose l’umore ferino della caverna, lo speco antico dei primati ignudi, di vello caprino vestiti, scaldati da sterco cotto al fuoco, con le membra annodate sotto braccia spalancate nella disperata questua di un tepore notturno. Ma non faceva freddo e l’aria umida e tiepida rendeva sfocate le immagini di calzini di spugna ingialliti, di ovali scuri e stranieri, di capelli color plastilina, di mandibole leste e ruminanti, a fare a gara con le ruote meccaniche della carrozza motrice.
Guardò la cravatta. Era scappata fuori dalla giacca e penzolava lenta, come un glande moscio, anziano. La raccolse con religiosa delicatezza e la rimise al suo posto, riavviando il nodo. Poi si volse e camminò verso la coda del serpente indigesto. Così passò di carrozza in carrozza, ascoltando gli sbuffi delle porte a scorrimento con i maniglioni blu. Metallo cromato, appiccicoso. Prima di giungere nei pressi della toilette, vide un uomo magro, coperto da una divisa ampia e sbilenca. Due o tre taglie in più che gli cadevano sulle spalle come un drappo barocco, oppure un cencio. Se vuole ci sono sei posti liberi nella prossima carrozza, disse il controllore. Voleva rispondere ma in prospettiva, dietro le spalle del suo interlocutore, vide uscire dalla porta del WC un ometto cinese. Gli sorrise, appoggiò l’indice alle labbra e se la svignò. Di rimando rimase con lo sguardo incerto, muovendolo lento, quasi assonnato, tra la figura svanita e quella del ferroviere.
Se non vuole sedersi può sempre stare in piedi. Mi fa controllare il biglietto per favore? Bene, la ringrazio. Buona giornata.
Allora si mise accanto ad un’uscita. Appoggiò la sua cartelletta a terra, tenendola in piedi tra i piedi. Estrasse il libro. Cominciò a leggere. Desiderava volare con la mente al New Mexico. Vedersi a cavallo, sentire il sapore della sabbia in bocca e accarezzare il garrese di quello stallone nero, che amava da un pezzo e che era un regalo di sua moglie che stava nel rench a curare bestie e figli. Ma le righe si sovrapposero, oppure era la sua mente che non riusciva a seguirne il senso, troppo disorientata da tutti quei sussulti sgarbati e da quel vaso di pandora che era il cesso. Ogni cinque minuti ne uscivano sagome di colore e vesti e odori differenti, che lo guardavano come fosse un dalmata di porcellana, muto all’uscio per l’eternità. Voltavano il capo a destra e a sinistra come se potessero percepire delle vibrazioni nell’anima del vagone; come daini braccati, zampettavano via, nella gabbia che corre.
Poi arrivò una donna che sapeva di brodo, con un maglione carta da zucchero, a maglie larghe. Nell’alito aveva mille galline, di quelle che ti fanno tornare alla mente tua nonna seduta accanto ai fornelli, con il corpo spennato del volatile stretto nel pugno, a bruciare i resti del piumaggio. Abbrustoliti umori di cascine scomparse. Posso venire con lei? Chiese la donna. Credo di no, scendo in centrale, rispose lui. Ah, scende in centrale. Allora me ne vado. Dietro di se la piccola valigia a rotelle cigolava come una barella arrugginita.
Prima di Lambrate un grande uomo nero gli si mise al fianco. Devo scendere, disse. Il treno era ancora in corsa. Cinque minuti almeno alla prossima fermata. Aveva jeans più blu del mare, con strisce decorative in candeggina e poi la cintura con la fibbia grande come il mondo. Una cinghia che gridava la propria esperienza nelle forniture fashion scontate per straccioni. Iniziò a urlare nel piccolo cellulare nero, che nella sua mano nera sembrava una lucciola spenta. Dolce and gabbani, hugo bozzi, guci and armani. Poi disse cose incomprensibili e cominciò a ridere. Il medio orientale discreto che non aveva mosso ciglio, appoggiato elegantemente al bracciolo dell’uscita opposta, cominciò a sorridere. Pochi istanti dopo a ridere. Risate sane e gioconde. Allegre e prepotenti e puntò il dito contro di lui, sollevando gli zigomi in una stirata smorfia da clown.
Ridi di me? Ehi tu, ridi di me?
Scusa amico. Sei divertente sai? Sei tutto fuori contesto! Prese a singhiozzare, battendo forte la mano sulla gamba tamburo.
Prima di arrivare alla Stazione Centrale aprì lo spiffero del finestrino. Quel rettangolo di vetro metallo sottile, che si apre di rado, a far girare l’aria d’inverno quando tutto è appannato. Si slacciò la cravatta e la appoggiò alla cornice di argento, muovendo i polpastrelli dell’indice e del medio per agevolarne l’uscita.
Dal vetro opaco la si poteva vedere dibattere come un’anguilla nel pugno di un pescatore infermo. Poi d’improvviso si tramutò in un’aquila reale e spiccò il volo, verso un mondo che non era più.
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Un racconto di Giorgio Michelangelo Fabbrucci [email protected] twitter@iFabbrucci
9 marzo 2013
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