invia il tuo racconto inedito

DIARI DA UN MONDO MIGLIORE – BELLEZZA

Come ogni mattina decisi di rendere questo continente migliore. Tra le tante priorità segnate in agenda, tra idee sudate d’inchiostro ed appunti verbali in smart phone, scelsi ciò che l’istinto suggeriva alla mente nell’atto antico e virile della prima rasatura: l’implementazione della qualità paesaggistica.
Si era evidentemente innescata un’affinità deliziosa tra l’atto scrupoloso della mano e il dolce levigarsi dell’epidermide; affinità che tese la sua sostanza impalpabile sino a schiudersi in una metafora pratica e utile al tempo stesso. Se il mio volto fosse stato un orizzonte ed io un puntino di polvere, un pulviscolo iridescente abilitato alla visione d’insieme (seppur da una certa distanza) del mio volto, cosa avrei colto? Avrei osservato dolci declivi di rosea seta, sormontati dalla torre del naso e dalle stelle degli occhi, occultati e negati all’armonia divina da steli di pelo, colonne di barbuzia, palazzi di nero pungente, depauperanti escrescenze pilifere; insulti pressoché eloquenti all’equilibrio perfetto donato al volto dell’uomo. Sebbene la metafora fosse imperfetta, poiché sappiamo che il pelo è cosa naturale, non potevo fare a meno di pensare. Riflettere sul fatto che dopo il passaggio della lama, la perfezione tornava a sorridere e la pelle tornava morbida e il balsamo la faceva risplendere, donando al volto, la sua reale lucentezza.

Quella mattina entrò nelle stanze serioso. Emanava un profumo pungente, come di vetiver. Il volto era lucido come una scarpa appena lustrata. Il mento portava un graffio all’interno della fossetta, che Lui molestava di continuo, tenendola stretta o quasi strizzandola, tra la base dell’indice ed il polpastrello del pollice. Scrisse qualche cosa con la mano libera. Alzò la cornetta. Guardò il dipinto alle sue spalle e sempre con il mento pressato tra le dita, si sporse alla finestra ed indicò un alto palazzaccio lontano. E’ ora di finirla con queste escrescenze di cemento, disse.

Il rasoio mi procurò un piccolo taglio. Probabilmente avevo esercitato una smodata pressione sull’impugnatura della lama, di certo direttamente proporzionale alla profondità delle mie riflessioni. Ciò nonostante il sangue fu foriero di ulteriori considerazioni. Mi avvicinai allo specchio e strizzai gli occhi per mettere meglio a fuoco il taglio ed i suoi liquorosi umori. In fondo, pensai, nonostante ora bruci e sia un solco in un intreccio perfetto, ben presto sarà rimarginato. Per sua stessa sostanza la natura tende all’equilibrio, a riportarsi nel suo giusto assetto. Se mi fossi innestato un tronchetto di ebano nel mento, come in antiche culture africane, la natura non avrebbe percorso il suo corso. Sarebbe stata deviata, percorrendo la strada della guarigione intorno al volume del corpo estraneo. Ma se all’opposto, quel tronchetto fosse stato tranciato di netto da un tronchesino, che per sbaglio o per volontà avesse stretto la sua morsa metallica alla base delle carni piuttosto che del monile, in poco tempo la carne, nonostante il sangue, nonostante la purulescenza, avrebbe riprodotto ex novo la sua iperuranica perfezione. Cosa dunque mancava al continente per riprendere ciò che gli era stato donato? Forse solo il coraggio di un dolore passeggero.

Divise il continente in zone. Per ognuna aveva stilato un lista di ordini professionali: architetti ed ingegneri. Poi alzò la cornetta, compose un nuovo numero, si terse il sudore con un fazzoletto color porpora, di velluto e si fece inviare un elenco. Trasmise il file in segreteria e lo riprodusse in numerose copie cartacee. Ce le consegnò con l’ordine di abbinare un cognome ad ogni palazzo. Escrescenze, li chiamò. In assenza di una corrispondenza esatta, ordinò di accoppiare ad ogni palazzaccio il nome di un politico o di un dirigente statale impiegato nell’ufficio lavori pubblici durante la votazione del piano regolare vigente prima della messa in cantiere dell’opera in oggetto. Ci impiegammo un anno. I più zelanti, in assenza di responsabili viventi, segnarono i nomi dei figli o dei parenti più stretti. Prese l’elenco soddisfatto, ordinò del prosecco e offrì da bere a tutti noi. Poi si volse alla scultura antica, alla destra dell’uscio. Domani la Bellezza otterrà giustizia, disse. Ciò detto, versò del vino sul seno della donna in travertino, e lo leccò.
Fui incaricato di posizionare telecamere alla giusta distanza.

Intitolai quel giorno Pasqua Nova. Mi sedetti nella sala. Il divano era comodo. Di pelle. Nera. Centinaia di piccoli schermi tutti attorno. Senza audio. Optai per Beethoven.

I procuratori furono liberati per le strade nella notte. Raggiunsero gli appartamenti, le macchine, i motel. Vi trovarono le prede e le colsero. Spesso sgomente non opposero resistenza. Ci dev’essere uno sbaglio, dissero. Sei incriminato di avere depauperato il paesaggio del continente, di aver offeso l’occhio e l’animo delle generazioni future, di aver lucrato sulla pelle dell’orizzonte, violentando lo sguardo del mare, il suo respiro per le strade del mondo. Non hai nessun diritto, poiché hai tolto al prossimo tuo ciò che era stato donato ad ogni senziente dall’infinita misericordia dell’Universo.
Poi le prede furono spogliate. I vestiti vennero tagliati per una metà; l’altra strappata a mano. Poi vennero coperti di malta, ad esclusione del volto, e posti a terra con le gambe strette e le braccia spalancate. Chi svenuto, chi urlante, fu posto su una croce di tondini di acciaio. Stretti da alcuni lacci all’intreccio di metallo, furono incoronati con cocci di vetro sulla fronte e poi issati da catene di gru, sulla cima dei palazzi. Poi venne il turno degli artificieri. Si misero a distanza di sicurezza. I guanti arancioni e lisi stringevano telecomandi, grandi, con cavi lunghi e blu. Dopo molte grida lontane Lui diede l’ordine e tutti i palazzi implosero, inghiottendo i corpi straziati dei loro padrini.

Dopo più di un secolo mi rialzai. Mi ero assopita, oppure camminavo, incosciente, nell’averno. Sentì il calore solare, la brezza di Eolo ed il frinire del mare, della cicala e del mirto. Canticchiando mi volsi al sepolcro. Io. Bellezza. Ero risorta.

___

un racconto di Giorgio Michelangelo Fabbrucci

Author: Giorgio Michelangelo

Giorgio Michelangelo Fabbrucci (Treviglio, 1980). Professionista del marketing e della comunicazione dal 2005. Resosi conto dell'epoca misera e balorda in cui vive, non riconoscendosi simile ai suoi simili, ha fondato gli Alieni Metropolitani... e ha iniziato a scrivere.

Share This Post On
  • Google

Scrivi un Commento!

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: