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Deserti di sabbia nella clessidra del tempo

La sabbia si aggrappò alle caviglie di Lei. Nudi, i passi calpestavano lenti i granelli, che saltavano un palmo per poi scendere giù. Millimetriche acrobazie di storie passate. Ricordi. Deserti nella clessidra del tempo, disordinati dallo sciabordio di quel mare d’autunno, dai colori rinascimentali. Solo una veste grigia ed una sciarpa sbiadita dalla salsedine che oscillava come un serpente stanco ma ancora sinuoso, coprivano il corpo di Lei. Camminava lungo il bagnasciuga. Era quello il sentiero e ne seguiva ogni inclinazione, dune di terra, incurante dei secondi sparsi al vento. Non aveva meta, perché ogni cosa era già al suo posto.

Un tronco morto. Trecce di alghe. Pois di conchiglie. Sdraiato allungava i rami fino all’acqua, per sfiorarla, bruciare, sbiancare e marcire ancora un poco; perché voleva svanire, nel buio. Ma la luce dei ricordi rimase accesa e Lei sentì il pizzicare della chitarra ed il profumo di cenere arsa, che illuminava le stuoie e l’oscillante luna. I volti giovani e giovane il vino, nei bicchieri di plastica che si rompevano presto, a profumar le pelli abbronzate, come di ambrosia. Poi il bagno notturno e le risate eccitate. Gengive rosse riflesse sull’oceano carta da zucchero. Gli spruzzi. Denti bianchi pronti a mordere il mondo. Le dita bramose, i mugolii strozzati, le carni umide, perfette. Gambe avvinghiate ai fianchi per poi giacere storditi e morire ancora, sotto i sogni di latte, che erano stelle e all’alba non sarebbero stati più.

Poi un granello rotolò al lungomare. Lo costruirono in mattoni rossi, di cromie similari, posti a terra, come una specie di incastro, a formare un selciato. Poi misero le luci e le panche, i baracchini e la musica. Un mondo che camminava guardando il mare, senza bagnarsi i piedi. Si ricordò di quelle scarpe che si nascondevano dietro alle ruote. Piccole. Il passeggino e la coperta intrecciata di lana che le fece a mano sua madre, in un sinfonia di bacchette metalliche e uncinetto. Il piccolo aveva occhi grandi come i bottoni di un cappotto. Più grandi ancora del padre, se mai fosse stato possibile. Un uomo dalle spalle ampie e dal piccolo petto, che navigava a vista, sognando l’onestà altrui. Lo amava e adorava quell’odore di anice di cui aveva intriso ogni atomo della moquette.
Anche a quel tempo i granelli continuavano a volare, tenendosi stretti mille e più sorrisi, portandoseli addosso, in un mulinello di vita. Avrebbe voluto afferrarli, riempirsene le tasche, correre a casa e svuotarle in anfore di vetro, come acquari di ricordi, da osservare con le mani sudate, che lasciano l’impronta sulla superficie come un alito d’inverno, per poi dire ancora qualche minuto, per favore, mentre qualcosa ti afferra una spalla e ti porta via.

Quanti granelli in quei capelli grigi. Li raccoglieva dietro la nuca, tenendoli impigliati, in una bacchetta di bambù. Guardava il nipote mentre le mani battevano ritmicamente il tagliere e le braccia di donna diventavano turgidi bicipiti di matrona. Chissà se quel bambino avrebbe capito. Si ostinava a fare castelli per poi tornare sulla costa due o tre volte al giorno, per cercarli ancora. Piangendo si guardava indietro e le lacrime volavano via dagli occhi azzurri e luccicanti, mentre voltava la testa di scatto, scompigliando i boccoli di grano, come a ritrovare il punto esatto della costruzione, per ritrovare le torri e il bastione e il ponte levatoio di bastoncini di ghiacciolo.
E’ qui il tuo castello Amore mio. Sta volando, con tutti i suoi soldati, tra le spire del tempo.

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un racconto di Giorgio Michelangelo Fabbrucci

Author: Giorgio Michelangelo

Giorgio Michelangelo Fabbrucci (Treviglio, 1980). Professionista del marketing e della comunicazione dal 2005. Resosi conto dell'epoca misera e balorda in cui vive, non riconoscendosi simile ai suoi simili, ha fondato gli Alieni Metropolitani... e ha iniziato a scrivere.

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