Recensione di Giorgio Michelangelo Fabbrucci
Vuoi mettere sul ring il libro e la pellicola? No, non preoccupatevi; non voglio contrapporre stili e mezzi distanti nei modi e nello scopo: inchiostro e bobina. Allora perché stai scrivendo? Voglio solo metterli uno fianco all’altro, osservarli, riflettere sulle loro differenze e se possibile condividere al meglio con tutti voi le mie sensazioni. Tenete presente che sto parlando di “The Road” di Cormac McCarthy. Quindi? Quindi prendete entrambi e cercate di goderne; di ognuno per quel che suscita.
Partiamo dal fondo, dal giudizio. Un giudizio semplice e totale. Il libro The Road di Cormac McCarthy è un capolavoro assoluto; il film diretto da John Hillcoat, con Viggo Mortensen e Charlize Theron, é un favoloso lungometraggio. Li consiglierei entrambi ad un caro amico di infanzia, anche se quest’ultimo fosse completamente a digiuno di postmodernismo o di letteratura americana. In primo luogo gli direi: leggitelo! Prendilo e leggilo tutto d’un fiato. Ti sembrerà di essere al centro dell’apocalisse; ti domanderai quale sia il senso della vita quando ogni forma vivente sta spirando e sentirai l’odore dei vestiti lerci, le fitte umide sotto le coperte lacere e avrai paura dei tuoi simili; hanno bisogno di sfamarsi; di te. Eppure al contempo il cuore ti si gonfierà a tal punto da suscitare mille lacrime; perché comprenderai in quell’affetto universale che lega il padre al figlio, la creatura al creatore che, nonostante tutto, l’Amore, può vincere sempre, anche all’inferno.
“Occhi cerchiati di sporcizia e profondamente incavati. Come un animale nascosto dentro un cranio che guarda fuori attraverso le orbite”.
Questa é la prosa di McCarthy; questo é il suo modo per raccontare lo sguardo di un nemico, di un disperato nemico, affamato; di voi, di vostro figlio.
Tutto il testo mantiene questo alto profilo. Una descrizione ridondante del nulla, che per mano di una grande scrittura, diventa il sentiero perfetto attraverso il quale prendere per mano il lettore; non tanto e non solo per farlo riflettere sul senso della vita (che già di per se basterebbe) ma per farlo entrare in contatto intimo con un sentimento antico come l’uomo, comprensibile da qualsiasi sapiens sapiens ma al contempo, arduo da descrivere con co’tanta efficacia: poi si incamminarono sull’asfalto in una luce di piombo, strusciando i piedi nella cenere, l’uno il mondo intero dell’altro.
L’uno il mondo intero dell’altro. Ho riflettuto su questo brevissimo periodo; non perché non lo capissi; più semplicemente perché ero stupito, e lo sono tutt’ora, di come con quattro parole si potesse esprimere la totalità di un’emozione così intima e profonda.
The Road (basta sfogliarlo velocemente, é sufficiente un colpo d’occhio) é strutturato in narrazioni che superano raramente le venti righe. Eppure queste parti non sono indipendenti; si legano perfettamente, come pezzi di un puzzle, le une alle altre. Spezzoni, li chiamerei così. L’utilizzo della destrutturazione della narrazione, che a volte, dalla terza persona, declivia nei pensieri in prima persona del protagonista, concede al testo un ritmo serrato. Un tamburo, che diffonde la sua eco nel paesaggio desolato dell’armageddon. Ad accompagnarlo i dialoghi profondi, sempre minimali: quasi che parlare, in quel mondo cannibile, costituisse un pericolo da non dover raccontare neanche nel testo. Tutto ciò dona ad ogni pagina un senso di realismo e verità che vi inghiottirà, forse fino a farvi piangere.
Dunque il libro é meglio del film? Con tutto il dovuto rispetto, miei cari lettori, non é questione di cosa sia meglio o peggio. Quel che conta, a parer mio, é il merito di aver dato il massimo, diciamo così, con i mezzi a disposizione. Mettetevi per un attimo nei panni di un regista: come descrivereste le frasi fin qui citate, avendo a disposizione null’altro che la realtà posticcia di un set; e foss’anche la realtà vera, il nostro quotidiano mondo, come riuscireste e renderlo così vivido da sorpassare la pelle d’oca donata da una descrizione pura, cioè priva di effetti grafici, ovvero sostenuta dalla sola fantasia suscitata da un prosa potente?
Facciamo un’altra prova. Ecco la descrizione di alcune teste umane, trovate appese ad un muro, sulla strada: le orecchie incartapecorite erano ornate da cerchietti d’oro, e il vento strapazzava i capelli radi e sciupati che avevano attaccati al cranio. I denti nei loro alveoli come calchi da laboratorio, i tatuaggi grossolani realizzati con qualche tintura casalinga, scoloriti da un sole esangue.
Sinceramente ritengo che anche il miglior regista del mondo, con i più grandi esperti di luce e di post produzione al fianco, farebbe fatica ad infondere tanta forza ad un’immagine.
Nondimeno, cari Alieni, il film riesce egregiamente a ricostruire quel paesaggio tetro e rarefatto; é capace di dare un volto alle metropoli morenti, come gigantesche carcasse di luna park. E ancor più, mantenendosi fedele ad alcuni dialoghi, proietta molti pensieri del protagonista sullo schermo, i suoi ricordi insieme ai nostri (per chi ovviamente ha già letto il testo) in un unico continuum.
Il film insomma (eccezion fatta per la voce fuori campo iniziale, utilizzata per introdurre il telespettatore nel mondo postatomico di McCarthy) è una trasposizione fedele del testo. Ritroverete lacrime, grida e sguardi negli stessi posti dove li avevate lasciati poco prima, sulla carta.
Ad impreziosire il talentuoso lavoro del regista, la bravura di Viggo Mortensen. Il nostro Aragorn ha abbandonato la terra di mezzo, per tuffarsi nella terra di nessuno, segnando ogni secondo con le espressioni eloquenti e disperate, davvero realistiche, del suo volto. Se avrete la fortuna di vedere il making of del film, scoprirete che per calarsi nella parte, l’ex cowboy di Hidalgo, ha smesso di mangiare ed ha dormito sul set con gli stessi vestiti del suo personaggio.
Un ultima cosa… la colonna sonora firmata Nick Cave e Warren Ellis. Perfetta. Ogni nota si appoggia dolente, sui profili cupi del mondo sfinito.
Ho esagerato nel declamare le lodi di quest’opera?
Leggete, guardate, ascoltate… mi farete sapere.
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Giorgio Michelangelo Fabbrucci [email protected] Leggi altre recensioni su Cormac McCarthy

2 comments
gianluca says:
feb 27, 2012
RispondiLa strada di McCarthy è l’apice narrativo. È ciò che ogni autore vorrebbe raggiungere. solo 200 pagine! Senza una virgola sbagliata. Senza una parola che non sia stata selezionata con meticoloso talento. Se dovesse realmente finire il mondo, sono sicuro, lo scenario sarebbe proprio come quello descritto da McCarthy.
McCarthy, forse più di DFW, Pynchon, De Lillo, Frenzen, Bellow, il Frey di un milione di piccoli pezzi, che adoro, è un talento unico.
Cazzo che invidia.
Gabry says:
ago 26, 2012
RispondiA volte un po’ mi vergogno a dirlo… ma io credo che questo sia uno di quei rari casi in cui la trasposizione cinematografica mi ha colpito più del romanzo, e il romanzo mi ha colpito parecchio…