Poggiano i piedi lentamente, a testare la resistenza di quella scala, che pare secolare. Sembra resistente ed iniziano la discesa circospetta. La casa, o meglio, lo stabile è completamente vuoto. Piani su piani senza pavimenti: forse crollati, forse mai costruiti. Al centro, gli scalini attorcigliati degradano in un buio di polvere e rumori molesti.
Poca la distanza che li separa dal piano terreno, quando la scena si fa nitida. Migliaia di topi rosicchiano come spaghetti, da un capo all’altro, i fili di lana. Corde rosa, caramellose, forse nate per ingrassar le prede dei padroni di questo piccolo mondo.
Mi faccio avanti io – dice Intricante
Molto nobile da parte sua Lord – continua sempre più ironico il ragazzo – io ne ho piene le scatole di topi: topi in soffitta, topi che mangiano libri, topi in questo mondo… basta!
Intricante inizia la sua camminata tra le bestiole pelose. Non passano più di tre o quattro metri, quando il suo incedere viene bloccato.
Non riesco più ad andare avanti! – grida spaventato – il pavimento è di colla, o qualcosa di simile! Non scendete!
I ratti iniziano ad avvicinarsi, a girargli intorno, ad annusarlo. Spire di roditore, come cerchi concentrici d’un gorgo fluido e venefico, sempre più stretti, sempre più vicini al grasso eroe.
Sciò, sciò, andate via schifosi!
Riprende mano alla scopa, Davide; come quella volta in soffitta poche manciate di ore orsono. Tira fendenti, giravolte di ramoscelli. Graffia alcuni topi, altri vengono travolti e scagliati lontano. Peccato si riprendano alla svelta, come se le leggi fisiche del mondo natio, qui non valessero del tutto; e poi sono in molti, sono in troppi e non basterà di certo una scopa e scacciarli tutti.
Più il tricheco dalle orecchie elefante tenta di avanzare, più la colla si fa dura: una solida gabbia per passi ingenui. I ratti si avvicinano contenti: alcuni ne addobbano le gambe con i fili di lana, grottesco albero di natale; altri iniziano a scalare i pantaloni, financo vi entrano, lacerando i calzini, salendo fino alla cinta. Intricante urla alla stanza la sua disperata situazione.
Fai qualcosa. Trasformati! – grida Davide a Saggina.
Ho troppa paura! Non posso trasformarmi. Guarda il Tricheco! Guarda cosa gli sta succedendo. Lo mordono! Lo mangiano!
In pochi istanti i roditori coprono l’amico peloso. Non è più tricheco, ma pelliccia scomposta, colorata e pulsante di fame. Ha topi nella camicia, altri mangiano il suo papillon, altri ancora entrano nelle tasche.
Il cioccolato intricante, il cioccolato! Tiralo fuori! Lancialo lontano!
Con una mossa cruenta ed imperfetta, il nobile goffo estrae le sue amate sigarette al cacao. Nello stesso istante, come se quel braccio fosse la mappa d’un tesoro, i ratti cavalcano veloci fino alla mano. Quasi non si vede più il volto.
Butta via quelle maledette sigarette!
Il tricheco vorrebbe farlo. O forse ha già perso ogni speranza. Le tiene strette nel pugno, mentre i roditori fanno il loro mestiere: mordere, ingoiare, lacerare, distruggere.
Davide, vista la concentrazione di topi sul suo povero amico, guarda il pavimento scoperto di pelli, coperto di colle. Prende Saggina, la capovolge. Come per un salto con l’asta, usa l’amica come perno. Con un balzo, lungo un arco di volta, si schianta su una vetrata. Mille cocci in frantumi, al di fuori della casa, insieme alla libertà.
In quel breve fuggire, un urlo: forse l’ultimo, del vizioso e simpatico tricheco.
Non ha tempo di piangere o di ritornare dentro, in un’ultima filantropica follia. La strada è pista di gioco nella sabbia; una biglia gigantesca sta giungendo, anticipata da gatti urlanti. Sfera morbida di certo, ma comuque gigantesca: il gomitolo di lana rosa, lo sta per travolgere.
Corrono, incalzati dalla minacciosa mole rotolante. Se la tengono alle spalle, seguendo la strada, che per ironia della sorte, quasi fosse stata tracciata da un malvagio disegnatore, non ha vicoli o stradine nelle quali cercar la salvezza con la fuga. Vi fossero anche angoli o svolte improvvise, forse non riuscirebbero a vederle, tanta è la vicinanza di quel gomitolo maledetto.
Ogni tanto si sente un miagolio strozzato. I gatti, seppur eccitati dal loro gioco preferito, vengono spesso travolti; si incastrano negli intrecci filati, accrescendo la mole della soffice sfera minacciosa.
Corre Davide, scopa alla mano. Forse mille metri, forse più. Il fiato si fa corto. La milza morde al fianco. Nondimeno le gambe continuano a muoversi: falcate che tagliano l’aria. Poi un tombino, oppure dei calcinacci crollati da qualche muro, afferrano la caviglia del novello velocista. Inciampa. Cade. Pancia a terra a pochi secondi dal gomitolo. Senza pensarci, in quelle azioni che solo la disperazione rende pronte, afferra ancora una volta Saggina. Voltandosi a pancia in su, la usa come lancia. Spera che il gomitolo vi si appoggi, fermando il suo frenetico rotolare.
Saggina stai pronta! Non ti succederà nulla!
Aiuto Davide! Aiuto!
Le intenzioni erano buone e la tattica funziona…
…solo a metà. Il gomitolo gli è ora passato oltre. Non lo ha schiacciato. Saggina si è dimostrata uno scudo efficace, o forse meglio, un punto d’appoggio sul quale la superficie del gomitolo ha aderito, risparmiandolo.
Si rialza. Cerca la sua amata scopa. Non la vede. Forse è dietro di lui, oppure è stata lanciata via, senza che se ne accorgesse: nulla.
Si volta e finalmente la trova: là, incastrata, a girar con i suoi rami nel corpo di lana, insieme ad altri mille ospiti, raccolti dal gomitolo sulla strada.
E’ di nuovo solo. Come quella volta, dopo la scuola, lungo le strade della sua città. Ora è puro spirito, pura speranza. Non dovrebbe piangere o percepire gelido il sudore, sulla fronte: eppure questo accade. Fa qualche passo. Tira un calcio ad una pallina di plastica, poi poggia le mani al muro, china il capo e piange.
Non è giusto – si ripete – non è possibile.
Le stesse parole d’allora. Pensa ad Intricante. Pensa a quel maledetto libro. Alla scopa magica, apparsa dal nulla. Pensa che non è riuscito, o forse non ha voluto trasformarsi. Ha sfruttato le occasioni; ha utilizzato i suoi amici come riparo. Si sentiva un eroe in una grande avventura. Senza esperienza però, ha portato i due compagni alla disfatta.
Una gattina nera, lo raggiunge. In verità non è tutta scura: ha una macchia bianca sulla fronte che potrebbe essere una sfera. Un miagolio ed alcune fusa lo distolgono dalla commiserazione. Se la prende in braccio. Lei acconsente, stringendo gli occhi lentamente, in segno di gratitudine. La accarezza, la stringe a se, la annusa, riempiendosi le narici di quel profumo ferino, che sa tanto di realtà.
Ora la solleva. Distende le braccia in alto, come fanno a volte i padri con i piccoli neonati, levandoli al cielo. Poi la riporta a se, strofinando il suo volto al suo tenero musino, mentre scoppia il pianto sincero.
La gatta non lecca le lacrime, ne distoglie la fronte. Con le piccole zampe, sembra spostar le lacrime. Poi, accarezzandolo piano col la punta degli artigli, senza mai graffiarlo, scosta piccole ciocche di chioma, dietro i capelli di lui.
Il pensiero di Davide corre a Quella Volta.
Quella Volta aveva litigato con i suoi compagni, che per gioco e per scherzo, gli avevano svuotato l’astuccio giù dalla finestra. Quella Volta, Giulia lo aveva aiutato, arrivando all’improvviso in giardino, durante l’intervallo. Quella Volta Giulia lo consolò, dicendogli che doveva essere forte e che anzi, una volta cresciuto, sarebbe diventato migliore degli altri: più intelligente, meno gradasso… un uomo vero. Quella Volta Giulia lo baciò, scostandogli i capelli dietro le orecchie: piccole carezze, in quel primo sapore di labbra.
Giulia!
Con questo nome sulle labbra Davide apre gli occhi, nella cavità del suo letto, nella profondità del risveglio. Intorno a se la luce del Sole, l’armadio tarlato, il busto di Poseidone: tutto è normale, profuma di primavera.
Scende dal letto a chiamar sua nonna. Nessuno risponde. La cerca in cucina e in altre stanze. Nulla. in quel girovagare domestico, l’occhio inciampa su una fotografia: un vecchio marinaio, dalla barba ingiallita, con una pipa in mano, su una piccola chiatta, al limitar della costa, sorride felice. Sull’immagine una scritta femminile e decisa: “il mio bellissimo marito”.
Sorride Davide ricordando quella frase: “ tra l’altro mi spiace che non tu non mi riconosca…”.
Esce in giardino.
Nonna ci sei?
Sono qui mio caro!
Ma dove diavolo eri finita?
Che ti prende? Sei ancora nervoso per i topi… della soffitta?
No, No. E’ tutto a posto.
Ottimo. Senti caro, che ne dici di dare il nome a questa adorabile piccina?
Una piccola gatta nera, dalla fronte macchiata di bianco, gioca sul grembo della donna, con un piccolo filo di lana rosa.
Allora Dade, come la vogliamo chiamare questa meraviglia?
Io direi… io la vorrei chiamare… Giulia.
Mi sembra un ottimo nome.
Nonna e nipote si guardano. Un sorriso. Un’intesa.
Poco dopo il telefono di casa squilla.
Forse sta per giungere una bella notizia.
FINE
Blog Novel Scritta da Giorgio Michelangelo Fabbrucci