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Irene: l’uragano e il surfista

Non giudico. Non guardo. Non mi interessa. Al di là del bene e del male. Io sono perché devo esistere. Sbuffo il mio respiro in centinaia di galassie. Il mio occhio è vuoto e cieco, sopracciglia di vento. Procedo dallo spazio alla sfera, dal cielo al mare, approdo alla costa in trionfo, in un grido muto e continuo. Nell’infinito ingollo la luce, come l’ubriaca il vino, scompongo particelle. Danzano con me i gas variopinti, la materia viva, oppure no. Venga a me la pianta, la radice strappata, il pesce boccheggiante, lo pneumatico, la pecorella, il monumento testimone di qualsiasi civiltà. Si prostra il senziente, disorientato annulla, la carne, la boria. Figlia generata e non creata dalla madre amorale che ha partorito la vita nel vuoto senza linea. Chiamatemi titano, furia, tsunami, uragano, ciclone… Irene o Caterina. Sia io per voi ciò che vi pare. Perché sempre sarò, procedendo dall’ordine al caos, dalla vita alla morte, in quest’ordine senza fine, che ne io ne voi, comprenderemo mai. E sempre così sarà perché così è stato scritto, prima che l’atomo tremasse nel tempo.

Amen.

Quante volte da bambino, guardando la barba bagnata del padre, il suo sguardo e i suoi sputi, aveva desiderato volare. Non con ali di certo, ma con quel missile vetro resina che pare il dorso di uno squalo di plastica. Tutto nervi e coraggio. Devi avere timore, timore e rispetto, gli diceva papà. La tavola non faceva prediche: bianco Pegaso, osso di seppia;  sogno, di domare l’abisso.
Non bastò il corpo del padre, imbustato nella muta come un guanto di tomba, con la testa morta e livida che sembrava dire “vai via”, scostata a destra e a sinistra, in piccole pose, scomposte, dal ritmo del mare. Non bastarono i tanti amici, che bracciata dopo bracciata, si tuffavano negli umidi cancelli dell’averno, slittandoci sopra in pose da eroe. E neppure la cantilena lamentosa, piena di amore e di affetto, intonata dall’amata. Sentiva il vento e il vento scompigliava i capelli di lei, lasciando che qualche ciuffo le finisse tra le labbra, o si appiccicasse sulla fronte. Lo sguardo assente e timorato. Anche lei, vai via, disse. Lui non rispose, e in quell’assenza di verbi, il senso di vertigine sulla voragine dei cuori. La premura da un lato, l’incoscienza devota dall’altro. Non temeva quell’uragano, era chiaro a tutti. E tutti si allontanavano dalla spiaggia e dai gazebo, dalle case di legno imbiancato, con quelle insegne, che insegne non erano ma gridi di libertà free style. Poi ascoltò alla radio il discorso del Presidente e lo considerò un codardo. Altri formularono un altro parere e presero dei sacchi di liuta e li riempirono di sabbia, con grandi secchi di plastica blu mischiarono la calce all’acqua, che era di pioggia e non di lavandino, e ne fecero una farina dura, che con una spatola modellarono intorno ai cilindri di tessuto cinese per fissarli agli stipiti, ammutolendo le fessure. Lei disse andiamo via, un’altra volta,  ed il suo sguardo era vuoto, come una mummia, e tremava e non riusciva a dire altro che fuggiamo, perché aveva paura. Lui no. Così prese la sua tavola e si sporse dal pick up, per guardare il mondo di eroi che se la davano a gambe. Il soffio aumentava, la gente urlava. Lui no. Percepiva nel cuore quella preghiera: furia e comprensione, Madre Natura, pensò. Corse alla spiaggia, si bagnò i piedi e i polpacci e l’inguine. Si sdraiò sulla tavola come fosse un letto, oppure un confine, e senza voltarsi indietro iniziò a scavare il mare con le braccia. Si fece pesce, o forse motore,  con l’incavo di quelle mani che parevano pinne, scostava acqua fredda e gorgogliante di sale.
Giunto oltre la linea di orizzonte, dove diventava impossibile rinunciare, balzò in piedi, Poseidone equilibrista, ed attese la grande onda.

Ed ecco il mio regno di tempesta. Ecco il mare che si apre e trema di onda.  Ecco le leggi del tempo e l’anima eterna che castiga. Io sono ciò che romba e gira.
Poi lo sento gridare; gridare e girare, intorno a me. Cavalca i miei spruzzi. Sono qui, mi senti, urla. Sono venuto per te. Io e te. Forza. Sono pronto.
E per la prima volta il mio occhio vede. Scorge la vita al di là del vortice. Lui guarda il cielo. Sparisce e riappare la testa. Lo avvolgo. Lo stringo. Lo cullo al petto che mai avrò. Spariamo insieme. Nell’abisso. Nella pace. Irene.

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un racconto di Giorgio Michelangelo Fabbrucci, liberamente ispirato alla tragica scomparsa di un surfista 22enne, avvenuta il 26 agosto 2011 a Virginia Beach, mentre tentava di cavalcare l’onda di Irene.

Author: Giorgio Michelangelo

Giorgio Michelangelo Fabbrucci (Treviglio, 1980). Professionista del marketing e della comunicazione dal 2005. Resosi conto dell'epoca misera e balorda in cui vive, non riconoscendosi simile ai suoi simili, ha fondato gli Alieni Metropolitani... e ha iniziato a scrivere.

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1 Comment

  1. Una bellisima e poetica favola! Complimenti all’autore

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