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Robert Maitland potrebbe essere un uomo come tanti: architetto di bella presenza, scuro di capelli, alto, atletico.
Un uomo come tanti con una vita ordinaria, che scorre via lentamente tra il lavoro, la moglie, il figlio e l’amante (elemento quest’ultimo assai significativo, vero caposaldo esistenziale del suo equilibrio mentale). La vita del protagonista scorre tranquilla, giorno dopo giorno, regolare, monotona, equamente divisa fra le braccia di queste due donne: una devianza esistenziale talmente radicale da apparire quasi normale.
Maitland viene dunque presentato come una persona sostanzialmente anonima: di bella presenza, un lavoro onesto, una vita affettiva distorta ma condotta alla luce del sole (moglie ed amante sono rispettivamente consapevoli della reciproca esistenza). Persino l’età del protagonista contribuisce ad accentuarne il sostanziale anonimato: trentacinque anni. Troppo giovane per essere vecchio, troppo vecchio per essere giovane: età carica di sogni finiti al macero e di speranze ancora da realizzare.
Nel bel mezzo di quest’infinito nulla, la mattina del 22 aprile 1973 Maitland è vittima di un incidente, causato dallo scoppio di un pneumatico: oramai incontrollabile, la Jaguar su cui viaggia sfonda la barriera di legno posta sul ciglio della strada, finendo in una scarpata erbosa, trenta metri più in là.
L’isola di cemento.
Da quest’istante Robert Maitland, come un novello Robinson Crusoe, si trova imprigionato entro un dirupo buio e selvaggio (una selva oscura), non più lungo di duecento metri, nascosto alla vista delle auto che sfrecciano sull’autostrada. Al di fuori dell’isola la vita scorre regolare: le macchine continuano a percorrere la propria strada, i colleghi di lavoro non si allarmano poiché Maitland, soggetto schivo e refrattario ad autentici rapporti umani, è solito assentarsi giorni interi per trasferte di lavoro.
E gli affetti?
La moglie avrà pensato che, in quei giorni, il marito ha deciso di rimanere qualche giorno in più con l’amante; quest’ultima il concetto esattamente opposto. Improvvisamente, dietro la parvenza di una vita piena, intensa e ricca di soddisfazioni personali, Maitland scopre di essere completamente solo al mondo, acquisendo coscienza circa l’estrema aridità affettiva, ed esistenziale, della propria vita. Questo cambiamento di prospettiva si ripercuote inevitabilmente sul proprio desiderio di fuga: durante tutto l’arco del racconto, il protagonista elabora numerosi piani per evadere dall’isola e ritornare nel consorzio civile, ma più comprende l’assoluta insipienza della vita sin lì vissuta, più i suoi propositi si stemperano in frasi di circostanza, e la disperazione iniziale si tramuta da ultimo in serena rassegnazione. “Fra poche ore sarebbe sceso il crepuscolo. Maitland pensò a Catherine e a suo figlio. Presto li avrebbe rivisti: dopo mangiato ci sarebbe stato tutto il tempo di riposare e pianificare la fuga dall’isola”.
Queste le ultime righe conclusive del racconto, beffarde e surreali: pur essendo condannato a morte certa, affamato, infreddolito e dimenticato da tutti, il protagonista trincera i propositi di fuga entro frasi lievi ed evanescenti. Nonostante le apparenze, Robert Maitland non vuole più scappare, poiché quanto insegnatogli da questa nuova esperienza, intrisa di completa solitudine e di autentica percezione del Sé, vale più dei propri trentacinque anni, densi di rapporti vuoti e di un’esistenza di facciata.
La descrizione del desiderio di fuga di Maitland, intenso, sfuggente ed in perenne movimento nelle sue manifestazioni ansiogene (nonostante l’estremo immobilismo fisico che caratterizza l’intera vicenda) mi ha immediatamente ricordato il protagonista de “Il deserto dei Tartari”, Giovanni Drogo.
Pur nell’estrema difformità delle vicende narrate, l’iniziale sentimento che anima Maitland e Drogo è il medesimo: voglia di fuggire da dove ci si trova per immergersi nella vita autentica, che non è né sull’isola di cemento né all’interno della fortezza Bastiani, ma in città, in mezzo alle persone, tra voci, suoni, colori e odori. Dal mio punto di vista, Maitland rappresenta la versione “evoluta” e, per certi versi più matura, di Drogo: quest’ultimo giunge alla fortezza Bastiani, sua prima destinazione del cursus honorum militare, appena ventenne e, superato lo scoramento iniziale, sceglie volontariamente di non vivere. La sua paura di affrontare l’esistenza, nel suo significato più autentico, è così radicata ed insuperabile da nascondersi dietro il paravento di un irresistibile desiderio di gloria (l’attacco dei tanto sospirati nemici), evidentemente destinato a rimanere tale.
Maitland e Drogo sono due persone che hanno fallito, diciamocela tutta: la differenza tra loro sta nel coraggio dimostrato nell’affrontare la vita. Il personaggio di Ballard, pur sbagliando, vive e, una volta sbarcato sull’isola di cemento, rivisita la propria esistenza sforzandosi di coglierne il significato più autentico (operazione che, non a caso, risulta possibile solo grazie ad una solitudine pressoché totale). Giovanni Drogo decide a priori di non vivere, chiamandosi fuori dal consorzio sociale perché ritiene la speranza di una gloria effimera più forte della vita in sé.
Maitland è destinato ad una morte solitaria, densa però di una nuova consapevolezza mentre Drogo, anch’egli condannato a perire senza alcun conforto, si spegne in silenzio, malato, disprezzato dai propri commilitoni, circondato e, per qualche grottesco motivo allietato, da quel profondo nulla che ha consapevolmente scelto come unica presenza di vita.
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una recensione di Marco LaTerra