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Ero un ragazzino forse, quando lessi Kitchen. Probabilmente mi piacque, o forse era qualcosa di così assolutamente nuovo per il mio palato classicista, che decisi di farmelo piacere. In qualche modo quel libro mi toccò, ma non ricordo affatto come. Quindi cammino un po’ triste tra gli scaffali di un grande ipermercato, guardo la ignobile classifica clerico-culinario-sentimentale dei libri più venduti… e chi ti rivedo? Banana! Nome indimenticabile, soprattutto per un etero ortodosso  praticante come il sottoscritto. Lo prendo in mano, High & Dry, alto e secco e la copertina mi fa impazzire: così lucida e plasticosa, così gialla, così banana, così tenera con quel disegnetto gommoso che più che leggere mi viene voglia di mangiare (ecco Kitchen!).

In verità il libro non lo compro, perché sono un alieno metropolitano e quindi siamaichetivieneinmentedicomperareunarobadelgenere… me lo hanno regalato!

Così, dopo la gioia infantile per il dono proibito, nel solito afoso week end lombardo, mi tuffo nell’altrettanto umido Giappone. La prima pagina mi conquista. Una descrizione dell’autunno: “il mondo mi sembrava risplendere di un colore ben preciso. Sarà stato il marrone brillante delle castagne e il giallo vivo del loro interno, o l’odore di legno secco dei funghi maitake appena tirati fuori dal sacchetto di carta, o forse il verde e il giallo della zucca, la sua pazienza“. Così inizio a riflettere sulla sensibilità giapponese, sull’antica civiltà che perde la più grande delle guerre ma mantiene salda la propria visione del mondo… e continuo a leggere.

La storia è quella di Yuko, una ragazzina di quattordici anni, figlia di una bibliotecaria alternativissima che vende solo prodotti green friendly e di un uno strano antiquario di oggettistica americana (antiquario di oggettisca americana? Bah!). La giovin’ pulzella dagli occhi a mandorla possiede un dono fantastico: vede folletti simpaticissimi e luci colorate che segnano i suoi stati d’animo più significativi. La nostra Banana Yoshimoto insomma ci sa fare, penso, ed è capace di conquistare il lettore con personaggi originali, caratterizzati da peculiarità uniche, che svela già dalle prime pagine. Chissà cosa mi aspetta, penso… e continuo a leggere.

Procedendo nella lettura, di pagina in pagina, il mio entusiasmo viene smorzato. Yuko si innamora del suo insegnante di pittura, di sedici anni più grande. La madre lo scopre e accetta la cosa. Poi si sente la mancanza del padre. Madre e figlia si confessano e lo chiamano, poi Yuko parte con il pittorefidanzatoplatonico a casa della suocera pittrice e finisce il libro.

Questo testo non regala nulla. Tutte le caratterizzazioni dei personaggi, i loro tratti significativi, non vengono minimamente approfonditi. La storia procede a passi veloci, tra riflessioni scontate ed avvenimenti banali. I ragionamenti della piccola protagonista vagano tra il dubbio adolescenziale e il buonismo più terrificante. Insomma, centosei pagine a caratteri cubitali con interlinea da triangolo delle Bermuda, sono veramente un’offesa.

Vi assicuro, questo non è un giudizio affrettato. Ho riflettuto per due settimane prima di scrivere questo testo e vi sto scrivendo di cuore. Non trovo un messaggio in questo romanzo. Non trovo nulla, se non la voglia di vendere con il solito racconto lungo spacciato per romanzo a tema “ragazzini problematici alla scoperta del mondo“.

Mi rimane il premio di consolazione: forse questo testo, nelle mani di un coetaneo di Yuko, potrebbe aprire al mondo della lettura. Se così fosse, sarebbe un ottimo regalo di natale under fourteen.

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una recensione di Giorgio Michelangelo Fabbrucci