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Cammina. Piccoli spostamenti trascinati. Passi quasi annullati dall’emicrania, oppure dai nervi scordati. Si è deciso a lasciar la villa. Sfiora i profili delle librerie che pare amare. Potrebbero essere di rovere, di ebano scuro o ancora provenire dai pertugi di civiltà estinte. In vita sua ha visto di tutto. Vita che è stata corsa, volata, conquista e olimpiade. Si siede con mollezza. L’accasciarsi bello di un Re senza corona. La sosta agognata infastidisce, fin dal principio.
Dove comincio? – si chiede – Questo si che è un dilemma! Per Giove come posso scegliere cosa porterò con me?
La questione si fa greve. Pesa. Sospinge i sentimenti ad una contrazione scomposta. Forse uno svago è ancora possibile. La frivola opportunità di illudersi e divagare, si fa miraggio e alternativa credibile.
Si dice – Due passi a salutar le api, mi faranno bene.
Appoggia le mani ai braccioli. Legno scolpito di leoni. Li stringe. Il tentativo vecchio di sollevarsi ancora. Il Sole inietta speranza. Filtrato. Drappi toscani danzano lenti nello spazio vuoto degli infissi. Il prato è secco ed emana quella fragranza d’infanzia, che ridesta fotografie di grano, di sudore e di fieno. Oro contadino che riempiva le pance e le casse. Com’era bello giocare a nascondino tra i marmi. Pregare tra le colonne accese di mistero. Disegnare l’Oriente sulla terra nuda, brulicante di vita. Tracciare le lontananze sognando sconfinate vittorie; e le tavolette di cera; e le lezioni alte; ed i bagni pubblici,tra mille schizzi di lussuria e di libertà.
Le api tacciono – Dormite? Amiche operose, è l’ora di alzar le antenne!
Le piccole operaie non rispondono. La regina, non è dato saperlo. Nondimeno una piccola pioggia di primavera suona. Dentro. Le celle cigolano. Graffi lievi. Neri. Alza pronto il coperchio, come a scoperchiare un lutto. Scarebei avvolgono le defunte alate in cerchi di sterco. Rotolano le zampe. Ruzzolar di morte. Coleotteri trionfanti. Catrame a zampe, discendente di Khepri.
E’ questo destino o coincidenza, oppure distrazione ? – Non lo sa ma conosce i nuovi proprietari della villa e forse, stavolta, il torto è dalla loro.
Dispiaciuto decide di cambiar mondo e pensiero. Quindi, di leggere un libro. Magari sotto l’ombra resinosa del pino di mare.
Cosa posso leggere ? Gothe? Manzoni? Tacito o Delillo? DeAmicis? Kant, Pavese o Darwin?
La mente si accosta all’impossibilità del trasporto. In questo addio coatto, in questo andarsene lontano, si domanda – Chi toglierà la polvere dalle mille copertine? Povera la mia piccola Alessandria… – Si rassicura – Forse qualcuno di tanto in tanto, lettore clandestino, si commuoverà ancora. Un’anonima lacrima nutrirà le pagine asciutte, brucerà il cuore e scagionerà l’anima dalle catene della superstizione… o forse no.
Prende Omero. Lo aveva lasciato in veranda, all’ombra dell’edera, su di un tavolinetto di paglia intrecciata. C’è  un bicchiere, dal fondo incrostato di bevuta notturna. Forse era sambuca, oppure passito di Pantelerria. Come Charles immagina una piccola zattera mutar forma lentamente, in forza delle circostanze, della convenienza e dell’ambiente. Umide assi grezze che diventano chiatte; e poi triremi; e poi galere; e poi velieri… gommoni. Pneuma di petrolio gonfio di motore assordante. Sciabordio della disperazione.
Sfoglia un pollice lesto il cieco narratore. Lembi di pagina scorrono sul polpastrello, raccontando storie di ciclopi e streghe, d’amore e di proci, di nobiltà e sacrificio. Frattanto passeggia, nel giardino assolato e secco, che si infrange sotto la suola come cristallo di sale.
Il pino di mare non c’è più. Ne rimangono a terra gli aghi asciutti e pungenti. Ne rimane il profumo. Un odor di bacca che è Mediterraneo.
Una Mecca verde frinisce. Cerchi concentrici. Vortice ellittico. Purgatorio di cavallette. Marciano verso la cima del tronco. Monco. Insetti si sovrastano gli uni gli altri, si calpestano e urlano. Grido di zampette strusciate, sdrucite, affilate.
Il giardino è già stato affittato ad altri, non può essere altrimenti – questa è l’intuizione che si fa certezza; consapevolezza che è giunto il momento di andarsene, almeno per qualche tempo, oppure per sempre. Torna nella villa, triste. Una tristezza che vuole farla finita con i ricordi e le immagini del passato; tristezza che non ci riesce, che non può farne a meno. Vuole accarezzare per l’ultima volta i vessilli. Aveva arredato la stanza della bandiere con amore, scegliendo le pietre del mosaico che ne formavano il pavimento una ad una; posandole con cura, come fossero piccole schegge di diamante. Composta l’immagine, al cui centro troneggiava Zeus sotto le mentite spoglie di un toro, aveva raccolto le tele colorate e le aveva appese come trofei, poggiandole al ferro con l’affetto d’una madre che corica il suo bimbo in culla. Garrite – aveva ordinato loro – qui starete al sicuro per sempre. Drappi di mille colori, strisce, bande e stelle posano le loro ombre sul garrese del maschio bovino, come a proteggere i misteri della giovane donna dalla bestia rapita. Gli scuri riflessi di tela sembrano muoversi. Non è il vento ma le forti vibrazioni provenienti dal piano di sopra. Scosse ritmate di tamburi elettronici che si aggrovigliano ai passi pensanti dei nuovi inquilini. Devono essere già arrivati – mentre lo pensa alza lo sguardo alla terrazza: giovani bellezze di latex vestite, a spaccar bicchieri di bollicine francesi, con rugosi Don Giovanni.
E’ proprio il caso che me vada. Il cuore pulsa forte e la vitalità fugge via, in compagnia dell’entusiasmo che fu. Con Omero in tasca, prende una stampella, gliela aveva regalata Giuseppe. Appoggiandosi sfinito al legno, come il Cristo la Pietà, si incammina all’uscio.
Chiude la porta a chiave – Non servirà a nulla – scende i tre scalini di travertino che lo accompagnano alla cancellata di ferro battuto. Ne piega la maniglia dalla forma d’agave ed è già sul marciapiede.
A piccoli passi Occidente cammina, verso il tramonto.

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un racconto di Giorgio Michelangelo Fabbrucci

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