invia il tuo racconto inedito

Giuseppe Lupo – Intervista

Un libro ambientato nel 1980 nei mesi successivi al terremoto dell’Irpinia è un modo per parlare in maniera obliqua del sisma recente in Abruzzo?

Il terremoto, come fenomeno della natura, apparenta tutte le civiltà cresciute lungo la dorsale appenninica, interessa cioè le popolazioni di una larghissima fascia geografica, dall’Emilia all’Aspromonte. Nel rievocare il sisma del 1980 è inevitabile che ci siano riferimenti all’Abruzzo, anche perché le dinamiche del fenomeno (la fine di un mondo, la dimensione di precarietà, le ingiustizie o i ritardi) si ripresentano più o meno similmente.

La componente logistica della gestione del terremoto nel libro è solo accennata: hai preferito declinare l’argomento della scomparsa di una civiltà come fine delle sue narrazioni?

Se non ho dato granché spazio ai fatti di cronaca relativi a quei giorni è dovuto alla prospettiva che ho voluto dare al mio libro. Essendo un romanzo, tutto ciò che è cronaca o descrizione minuta degli avvenimenti va delegato agli strumenti idonei (giornali, tv, radio), lasciando invece una finestra aperta sulla dimensione narrativa, che spinge piuttosto nella direzione del visionario, del fantastico, dell’immaginario anche là dove, come in questo caso, si racconta di un fatto cronachisticamente avvenuto. Più importante del dare informazioni su ciò che accadde, insomma, a me premeva elevare a simboli (cioè trasfigurare) ciò che accadde.

L’influenza più evidente nel libro è quella di Cent’anni di solitudine, ma, oltre all’inevitabile riferimento a Cristo si è fermato a Eboli, ho pensato, durante la lettura, anche all’ultima pubblicazione di Nigro (che citi nei ringraziamenti), Fernanda e gli elefanti bianchi di Hemingway (Rizzoli): credi che abbia ancora senso parlare del Sud come terra di magia o l’idea sottesa al tuo libro è proprio la scomparsa della componente misteriosa che caratterizzava l’entroterra meridionale?

Il capolavoro di Márquez e il libro di Levi sono modelli letterari che personalmente rivisito spesso nelle mie letture, accanto alla migliore narrativa dello stesso Nigro che è uno straordinario compagno di strada. Tuttavia se per magico intendiamo le atmosfere di moda negli anni Cinquanta, i segni cioè di quella dimensione culturale che richiamano il magico (il malocchio, la fascinazione), non posso non sottolineare la distanza che intercorre tra il mio libro e queste forme di ricerche antropologiche. Quel Sud, magico e fascinato, ha ragione di esistere solo come testimonianza di un’epoca, ma non può e non deve, secondo me, diventare oggi materia narrativa. Il Mezzogiorno è cambiato rispetto a quei tempi e la narrativa deve testimoniare di questi mutamenti. Le tracce del magico, che sono presenti nel mio romanzo, discendono da un’idea visionaria del mondo, sono figlie del mito (questo sì che non è sparito e continua ad alimentare il nostro immaginario), sono figlie di una cultura orale che la modernità (con tutte le componenti ambigue di cui questa parola si ammanta) ha progressivamente polverizzato.

Il paese di Palmira nel romanzo è caratterizzato dall’inesistenza sulle mappe, anche se poi raggiunge, al termine della narrazione, lo status di luogo ufficialmente esistente: hai pensato a un paese in particolare nella stesura del libro o hai voluto creare un luogo in cui convogliare tutte le storie e leggende dell’infanzia?

Tutti i miei precedenti romanzi – il primo (L’americano di Celenne), il secondo (Ballo ad Agropinto) – sono ambientati in paesi che non esistono. Amo le geografie invisibili (come d’altronde la dottoressa Pettalunga, la protagonista del mio libro), i luoghi inventati. Credo che una delle più misteriose e affascinanti attitudini degli uomini sia il gioco di inventare città (ce lo hanno insegnato Moro e Campanella, ma anche Calvino e Vittorini più di recente). Per questa ragione ho inserito, in esergo, una frase di Leonardo Sinisgalli che dà un po’ la chiave di lettura del libro: «Ciascuno di noi si porta dietro una casa e una città dove vive tutta la vita, l’altra vita, quella del sogno, la più vera, se pure la più labile». Condivido tutto di questo frase: ogni uomo (e quindi anch’io) ha bisogno di trovare il “paese dell’anima”. A volte non basta una vita intera per individuare questo luogo e pur tuttavia bisogna continuare a cercare, scoprire, rinvenire. Insomma è nella natura degli esseri umani costruirsi una utopia, che è una maniera per contribuire a progettare il mondo.

Nella Nota dell’autore capovolgi la dicitura, presente in molte opere di finzione, sulla non veridicità dei fatti raccontati: tu invece ci tieni a specificare che «buona parte del romanzo è frutto di realtà». È per conferire dignità al racconto? Sono più reali le storie fondative di un popolo della Storia stessa?

Potrebbe sembrare paradossale che una vicenda tragica e crudele come il terremoto (in cui cioè ci si aspetterebbe di leggere pagine taglienti come un bisturi) sia raccontata dando libero sfogo alle corde dell’immaginario. Però credo che non ci sia contraddizione in tutto questo. Ciò che racconto è davvero accaduto, l’ho visto con i miei occhi, ero presente, mi ha cambiato la vita. Ma non va narrato in termini reali, né tantomeno con fare nostalgico. Semmai va reinventato come allegoria di un’apocalisse (come allegoria della scomparsa di una civiltà), morte di un mondo, di cui non si può far altro che sacralizzare la memoria.

___

un’intervista di Carlotta Susca

Author: Alieni Metropolitani

Gli Alieni Metropolitani non cercano soluzioni. A volte ne trovano… é irrilevante. Appartengono alla Società e con sguardo consapevole ne colgono l’inconsistenza. Non sono accomunati da ideologia, religione o stile di vita ma da una medesima percezione del mondo. Accettano i riti della vita, riuscendone a provare imbarazzo. Scrivere! Una reazione creativa alla sterile inconsistenza del mondo.

Share This Post On
  • Google

Submit a Comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *