[racconto isprirato dal blackout di Aruba]
Quindi scese in cantina, a frugare come un ratto in un luogo a lui ignoto. Gli scaffali arrugginiti; il buio che è un guardiano assonnato, si sveglia spaventato; luci al neon. Cosa sta cercando? Forse se stesso, oppure i ricordi del suo passato, della sua famiglia; in fondo sta cercando una storia: la sua. Rovista, un gatto affamato la pattumiera. Planano le foto veloci al pavimento. Bianchi e nero sbiaditi, sorrisi posticci o forse sinceri, con un bicchiere di vino in mano. Decenni immolati all’umidità. Le ho scannerizzate, pensò. Le ho scannerizzate tutte, si disse una seconda volta.
Ritenne impossibile l’assenza di se, tra quelle scatole. Proprio per questo la sua mente produceva, con la frenesia di una stampante d’industria, immagini inesistenti. Si vedeva con pile di contenitori traballanti tra le braccia, mentre l’elevatore fluttua verso il piano fresco ed interrato. Inseriva gli scrigni dell’anima tra gli scaffali; con l’attenzione certosina di un topo di biblioteca, controllava le etichette, scritte con un pennarello nero, dalla punta grande.
Tutt’intorno il pavimento prese a cambiar colore. Una mosca, volando nervosa, osservò un mosaico di immagini antiche; un collage di uomini scomparsi. L’odore di marcio ne acuì l’istinto, facendola planare a livello del selciato blu pvc. Devono essere da qualche parte, disse; intendeva i ricordi.
L’antro bagnato e oscuro ben presto si trasfigurò in una mostra di vestigia umane; volti dimenticati; muscoli contratti in gesti d’affetto e di festa: abbracci ai valori antichi, più che alle persone.
Madido, chiazze acquose alle ascelle, tornò a camminare suoi propri passi. Nonostante l’incedere delle gambe e dei piedi fosse regolare, seppur svelto, si vedeva camminare all’indietro; un rewind imposto dallo streming, dall’infinita possibilità di ripetere le immagini; movimenti di pixel; realismo you tube.
Nella sua camera da letto c’erano cassetti. I cassetti cavolo, disse. Li aprì come il pirata il bottino, con una dose di aspettativa che faceva ribollire l’adrenalina; retrogusto di speranza; stracotto di illusione.
I contenitori di alluminio metallo smerigliato grigio lucente, sono incassati in una scrivania ampia. Scorrono veloci su piccole rotelline, situate nella sezione orizzontale, in basso rispetto al volume contenitore, opposte l’una all’altra. Una piccola maniglia, forse di ottone, ne aziona il movimento di scoperta manuale. Sono li dentro cavoli; devono essere li, pensò.
I contenitori a scomparsa, si aprirono all’occhio. Li aveva chiusi. Lui. Trovò la chiave in un salvadanaio e si rese conto che li aveva bloccati solo per proteggere il vuoto. Non mi servivano, pensò. Eppure, se solo avessi…
Il buco nero si muove ad una velocità tale da inghiottire completamente la luce al suo interno. Non se ne conosce esattamente la natura. Uccidendo la luce, si nasconde all’occhio. Se ne teorizza l’esistenza in forza del movimento ciclonico (concedetemi il termine) della materia al suo intorno. Sono state postulate mille ipotesi sul destino della materia ingollata dal ciclone nero. Nondimeno un nulla di fatto continua a scolpire il suo successo nelle menti dalla scienza illuminate. Quante civiltà, quanti mondi, sono stati digeriti nelle infinite buche dello spazio? Quando si richiuderanno? E se ci inghiottissero tutti?
Cercava tra le mensole i raccoglitori, gli album fotografici, le buste di plastica, i fogli di carta che aveva sempre maledetto. Nulla. Volevo solo salvare gli alberi, pensò.
La sua maturità, i primi sorrisi nella capitale, quel bacio a Castel Sant’Angelo, quella gita in Liguria, quel seno appena nato, quella poesia copiata, quel pensiero che profumava di napalm, il curriculum vitae, il biglietto della nonna, i diciotto anni, quella canzone dedicata per caso, quell’immagine di lei che rideva felice, lui ubriaco sulla spiaggia, il carnevale fumetto, tutti insieme nell’ultimo natale del secolo, la prima stretta di mano importante ed il concerto che sembra l’inferno; il gatto, i gattini e poi Praga, Parigi e Palermo, per non parlare di Milano e quell’abbraccio sul Duomo, mentre il guardiano lo sgrida e la città corre. Avevo scannerizzato tutto, pensò. Triste assonanza con il verbo scannare.
Quel giorno ci furono mille mani, le cui dita, per la prima volta dopo un secolo, toccavano oggetti. Erano dita imbarazzate, abituate a plasmatica scivolina di schermo. Ruvido, umido, vetrato: sensazioni nuove come saliva di donna ad anni quattordici.
Si ricordò di un vestito blu carta da zucchero, come diceva la mamma della mamma. Tra i capelli c’era ancora il granturco, quel vento afoso e le sue gambe sode di ballerina, che camminavano verso di lui. La vedeva intera per la prima volta, dentro e fuori, comprendendone la natura divina. Era un pomeriggio, alla Stazione Centrale di Milano; in Piazza Duca D’Aosta c’era un concerto. Lui aveva preso il biglietto per tornare a casa, lei rimase ad ascoltare la musica. Aveva il cellulare in mano, le fece uno scatto, lo condivise sul web e scrisse: so cos’è l’Amore. Il concerto suonava per loro: una colonna sonora, una sensazione che profumava di Dio. La canzone era “Onde”. L’aveva scaricata, salvata in formato mp5, condivisa sul web, registrata sul server. La condivise nel network e scrisse: so cos’è l’Amore. Poi tutto finì, lei se ne andò, e di tanto in tanto tornava su quella pagina web per ricordare ciò che la sua mente non poteva più archiviare lucidamente: il passato.
Poi venne una scossa; si trasformò in onde. La cenere, la cenere volò per qualche giorno nel cielo e tutto sembrava un’ombra che rincorreva l’asfalto, per tuffarsi nell’atlante di fuoco. Poi il Sole tornò a sorgere ed il mondo ritrovò il suo scopo. L’uomo barcollava senza lavoro e senza memoria. Ora che la rete si era disciolta, il pesce si trovò smarrito e decise di piangere. Per sempre.
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un racconto di Giorgio Michelangelo Fabbrucci