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GARDAGEDDON

Se non fosse per questo maledetto ronzio. Costante. Rantolo Vegetale. Lo è, oppure è qualcos’altro. Punto e basta. Sono più grandi di elefanti, più alte di giraffe. Io il topo che non fa paura. Questo mi deve bastare. Tirare avanti. Sopravvivere. Il nulla non si cambia: lo si sopporta. Mancasse anche questo rumore fioco, frasca metallica, non cambierebbe nulla.

Illuso. In fondo. Anche ora parlo, davvero penso, per niente. Alzarsi una mattina senza la tua Stella. Sapere che tutti laggiù, o chissà dove, sono polvere sparsa. Generazioni piangenti. Apatiche. Tu no. Io. Io sono. Qui. Al di là del senso. Del bene. Del male. Forse dovevo fuggire dai giudizi. Il bianco e il nero. Il giusto e l’opposto. L’intelligente ha cercato l’addio. Io, lo stolto, la vita.

“Coreg-One”. L’ho battezzato così. Prima del lancio ridevo. Ridevo a crepa pelle. Se solo avessero saputo la verità. Coregone: il pesce povero del mio lago. L’ho mangiato in tutte le salse. Conservo nella mente. Tutto. Una dispensa. Profumi. Aroma lacustre del fresco pescato. Mangiato. Fritto, in trattoria, su tovaglie color fotografia.  Tutto dimenticato, anche laggiù. Chissà perché. Ed ora ci somiglia. Dopo questo peregrinare di asteroidi e polvere stellare. La grigia vita della meteore. Sfumature brunite di elementi ignoti. Tutto assorbito. Tutto compreso. Compressa cromia di vuoti primordiali. Indecifrabile adattamenti nell’acciaio temprato. Un razzo che boccheggia. Una navicella che scivola come stormo di anguille. Turbinio di buchi neri. Un pesce. Un astronave. Un lago. Infinito. Lo spazio.

Ogni passo é leggero. Lieve come piuma. Non si avanza, si fluttua.

Secoli d’anni luce. Curvature spazio temporali attraversate come la cresta oceanica la noce di legno. Cosmiche procelle. Giungo qui, dove la vita é linfa. Nulla più.

Grattacieli orchidee metallo. Orizzonti di foglie grondanti nervi. Petali come ali di sauro. Che siano occhi? Che sia uno sguardo quell’incavo di grigio velluto, pigmentato di viola? E quel cono, che attraversa la fibra ricurva per brindare alla potenza del cielo? Quiete onnisciente di nuvole. Che parlino in un frusciar di vento? Che sia vita anche l’alito debole, questo ronzio, che geme in tutta la foresta? Che Madre Natura abbia rimescolato le carte, in questo tavolo d’edera, creando una nuova avventura, una possibilità priva di arti e di artigli? Che vi sia nella resina un’anima, un sentimento che stringe ogni arbusto, che fluisce dalla terra alla radice, che si sgola per cercar di vivere e vivere ancora?

Eppure, con le lacrime agli occhi, umide gocce di verità, guardavo.

Anatre. Una piccola scia. L’acqua. Starnazzare di cuccioli. Quello sguardo: il becco giallo che d’improvviso si volta, a curar la prole. Piccoli e belli. Aggraziate piume.  Tenerezze bagnate dal Sole, da quel Vento battezzato al Benàco: Peler.

Dormivano quiete, tra il gaio canglore di sartie bogliache. Una ninna nanna, che ci fu concesso regalare al creato, prima del motore.

I piccoli vicoli ritorti. Una liguria lombarda. Marciapiedi bagnati. Profumo di limoni. Gialli di un’alba spagnola. Mediterraneo di pianura.

Poi la gomma nella mano di Dio che cancella il foglio con la semplicità di un capriccio. Con la gioia della spada stretta nel pugno che taglia il vento in saette di sangue e rancore. Grida di uomini in schiere trasportano pali di labari in fiamme. Bruciano le mani. Bollono le pelli. Saltano alla gola. Leoni. Arterie esposte da macache vigliaccherie; perché pensano di vivere ancora, e ancora.

E così il mondo svanisce, nel perimetro oblò. Una biglia di vetro. Una spiaggia di stelle. Il piccolo golfo si nasconde alla guerra; e sprofonda. Abissi sgretolati. Ne rimane solo il nome; il nome del grigio re silenzioso che nuotava nel lago, la cui scultura (Argo!) mi ha cullato nel cosmo.

E qui scopro che il mio profondo lago era solo d’acquarello. Che ogni parola era un mattone di fango e fantasia. Che ogni sottana nascondeva un trionfo: il grido mammifero, che supera il Signore per scansarlo. Infinite ambizioni senzienti.

Prima io. Adesso loro: le mute piante aliene. Dove il merito della sopravvivenza senza minaccia? Sapete quanto ho pianto? In cosa Gli somigliate, in questo pianeta che é serra? Senza verbo. Senza grammatica. Siete schiave costrette alla vita. Prive di mani; ora le mie dita… la scure.

Anime in coma, il mio cuore batte! Perché l’uomo crede in ciò che schiaccia. Tremila anni di civiltà che esplodono in un solo urlo! Ascoltate il tamburo teso su ogni millimetro della mia anima!

Come il Vate Ardisco, Non Ordisco. Impugno la falce che é sega a motore. Finché avrò benzina, sarò il piccolo Dio di questo mondo. Un capriccio. Il Mio.

Sconsolate, dubbiose? Dovevate saperlo.

Viviamo. Moriamo. Giriamo… nel nulla.

___

un racconto di Giorgio Michelangelo Fabbrucci

 

 

Author: Giorgio Michelangelo

Giorgio Michelangelo Fabbrucci (Treviglio, 1980). Professionista del marketing e della comunicazione dal 2005. Resosi conto dell'epoca misera e balorda in cui vive, non riconoscendosi simile ai suoi simili, ha fondato gli Alieni Metropolitani... e ha iniziato a scrivere.

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