Recensione, per lo Speciale Premio Strega, di Marco LaTerra
Mi sono avvicinato alla lettura di questo romanzo del giovane scrittore Mario Desiati, finalista della sessantacinquesima edizione del “Premio Strega”, con curiosità ed interesse, dettati prima facie dal titolo, espressione dialettale con cui venivano indicate le fabbriche dove veniva lavorato il cemento amianto.
Come specificato dall’Autore all’interno dei ringraziamenti, le morti silenziose di migliaia di emigranti pugliesi che, nel periodo compreso fra il 1960 ed il 1980, lavorarono nella fabbrica d’amianto di Niederurnen, nel cantone Glarus in Svizzera, hanno rappresentato il motore di quest’opera, che ha l’indubbio merito di ricostruire il senso di quell’immane tragedia trasmettendo impressioni solari ed intense che, pur inficiate dall’ineluttabilità della morte, prevalgono infine su di essa, restituendo dignità all’umano sentire, unica qualità dell’Uomo in grado di poterla seriamente affrontare su un campo di battaglia.
La vicenda si svolge in Svizzera, nella prima parte, ed in Puglia (Tricase e paesi limitrofi) nella seconda e vede come protagonista principale Domenica Orlando (Mimì) che, ancora quindicenne, si innamora di Ippazio (Pati), conosciuto a Zurigo, dove era emigrata con la famiglia qualche mese prima. Il frutto del loro amore adolescenziale è Arianna, allevata esclusivamente dalla madre una volta rientrata in Italia: Pati, infatti, scegliendo un’esistenza votata alla vigliaccheria, caratterizzata da una propensione all’espiazione quasi più vile dei propri torti, abbandona Mimì una volta appresa dalla stessa la volontà di non abortire. Come un cavaliere già sconfitto ancor prima di combattere, Pati conduce una vita all’insegna dell’apparenza, della forma e dell’ossequio alle convenzioni, in perenne ricerca di una qualsiasi consolazione che, a distanza di trent’anni, giungerà solamente grazie ad un nuovo incontro con Mimì.
Oltre ad Ippazio, Arianna e Mimì, il quarto protagonista della vicenda è Biagino, fratello di Mimì ed alcoolizzato cronico il quale, pur trincerato entro uno stato mentale perennemente distaccato dalla realtà (e, a ben vedere, proprio per questo) possiede il dono raro di percepire in tutta la sua pienezza il lato più istintuale e primitivo della natura e, di conseguenza, dell’esistenza umana, superando in tal modo le barriere del raziocinio e delle convenzioni sociali che, nella logica inaugurata dall’Autore, altro non sono se non anticipazioni della morte fisica.
La fisionomia di “Ternitti” si delinea grazie al continuo raffronto di concetti antitetici fra loro, inseriti entro un sistema di scatole cinesi che, partendo dall’ovvia antitesi tra la vita e la morte, passa attraverso il confronto fra anormalità e normalità, passione e razionalità, incertezza e sicurezza, autonomia e conformismo, individuo e collettività per poi consacrare, al culmine della narrazione, il trionfo della vita. Tutto questo percorso, si badi, articolato entro continui riferimenti ai quattro elementi naturali: la terra, dispensatrice di vita; il fuoco, elemento consolatore dell’umana solitudine e simbolo dell’amore primitivo; l’aria, nella vicenda in oggetto intesa quale veicolo di morte (le particelle di asbesto, contenute nell’amianto, sono volatili) e l’acqua, simbolo di redenzione e purificazione.
Tra le tematiche maggiormente caratterizzanti il romanzo di Desiati, la prima a spiccare è senza dubbio quella della solitudine, tratto peculiare con cui viene tratteggiata la protagonista, Mimì.
Mimì è solitaria perché dentro di se porta “la tragedia e la grandezza”: del tutto priva di cultura, nel senso tradizionale del termine, si disseta costantemente alla naturale fonte della vita, sviluppando ed affinando nel tempo istinto, sensibilità e gentilezza (“la gentilezza si esercita con lo sguardo, col tono della voce, ed è uno stato dell’anima che si instaura tra due animali innamorati oppure tra due esseri umani che hanno la naturale predisposizione verso la grazia delle cose. Grazia. Una caratteristica che uomini non necessariamente colti, ma dotati, sì, di intelligenza, esercitano senza sforzo”).
La naturalezza, la sensibilità e la grazia di Mimì risultano continuamente drappeggiate dai colori brillanti della splendida terra del Salento, che nemmeno l’uggiosa Svizzera è in grado di annientare: lungo tutto il dispiegarsi della trama, Mimì sembra quasi non possedere fattezze umane (“a vederla sembrava un agile animale marino, un gatto randagio, una lince selvatica”), stagliandosi quale simbolo primitivo, selvaggio e, proprio per questo, intriso di saggezza, della propria terra.
Nei confronti dei suoi simili, privi di grazia, la protagonista evoca sensazioni di rispetto e paura (per tutti, valga la figura dell’avvocato che, sul piano simbolico, dovrebbe rappresentare il massimo del progresso culturale e del benessere sociale ma che, nei fatti, si rivela del tutto inadeguato al confronto con la feroce istintualità di Mimì): tali sensazioni, proprio in virtù del violento impatto che esse producono sul prossimo, sono necessariamente permeate da un’aurea di perenne diffidenza, poiché tutto ciò che esula dai crismi della razionalità per rivelarsi grazia allo stato puro, è anormale ed illogico e, pertanto, deve essere tenuto a distanza di sicurezza.
La solitudine caratterizza altresì le esistenze di Ippazio, Arianna e Biagino i quali, seppur a diversi livelli, ricevono l’influsso di Mimì.
Ippazio è un individuo solitario poiché vede nella lontananza dal prossimo l’unica modalità per espiare un’esistenza caratterizzata da viltà e fallimenti: prima il tradimento spirituale nei confronti di Mimì, marchiato dall’innaturale tentativo di indurla ad abortire, poi un matrimonio senza amore con una donna, Franca, che altro non può offrirgli se non la possibilità di non pensare alla propria inettitudine e dei figli che, quasi come un disegno scritto, fanno perdere le proprie tracce non appena divenuti maggiorenni. Ippazio è solo non per scelta orgogliosa, e saggia, quale gesto di protesta nei riguardi del conformismo, bensì per debolezza, considerando la solitudine il solo epilogo coerente di un’esistenza costellata di fallimenti, in linea con la “vita – non vita” da lui sin lì condotta: un’anticipazione della morte biologica, dunque.
Fino all’incontro con Mimì, trent’anni più tardi, Ippazio si limita a trascinare le proprie giornate senza uno scopo preciso, non progredendo in alcun modo all’interno della conoscenza di se stesso: solo grazie alla forza irresistibile di Mimì, Ippazio riuscirà a ritrovare la parte più autentica della propria natura ed una speranza di vita, aggrappandosi a quell’istinto sopito che, pur traviato dal terrore di vivere e dalla propria esistenziale vigliaccheria, non sarà ancora morto.
La solitudine di Arianna va analizzata considerando la discrepanza generazionale rispetto all’epoca in cui è cresciuta Mimì: divenuta adulta in una società dove trionfano le mode del conformismo e del freddo calcolo, dove l’unico concetto di “cultura” è quello supinamente appreso dai libri, senza confronto alcuno con la vita reale, Arianna coltiva un sentimento di radicato distacco nei riguardi della madre, impostando la propria esistenza su binari paralleli e indipendenti.
Arianna ama sua madre ma, intrisa dei modelli propri dell’epoca in cui è cresciuta, non riesce ad aprire i canali della propria naturale sensibilità e, di conseguenza, non è in grado di comprendere Mimì: soltanto i fantasmi di un incomprensibile passato, che nel corso del tempo finiranno per erodere la stereotipata cultura cartacea, ricondurranno Arianna al concetto di grazia primordiale e, di conseguenza, al tepore dell’alveo materno, inserendola nella grandiosa solitudine esistenziale che, da sempre, ha tratteggiato la vita di Mimì.
A differenza di Ippazio ed Arianna, emotivamente influenzati dall’innato carisma della protagonista principale, Biagino contrae nei riguardi della sorella un debito esclusivamente materiale: in quanto alcoolizzato cronico, non è in grado di badare a se stesso, venendo dunque accudito da Mimì.
Sul piano istintuale, tuttavia, Biagino è dotato della stessa grazia della sorella: ovviamente, alla luce della propria condizione mentale, questi non è in grado di trasformare la grazia innata in qualcosa di edificante, per sé e per il prossimo. Tuttavia è innegabile che proprio la scelta compiuta anni addietro, intesa a rinnegare il mondo reale sostituendolo con uno proprio, eretto sulla schiena del dio Bacco (atteggiamento forse vigliacco ma nulla di paragonabile rispetto alla congenita viltà di Ippazio), ha permesso a Biagino di affinare la propria naturale sensibilità, gettando lo sguardo oltre i sentieri del raziocinio.
Addirittura, in qualche occasione è la stessa Mimì ad aver bisogno del fratello, da lei visto quale unico ed autentico baluardo dell’incoscienza e dell’istinto, sfacciatamente sdegnoso di ogni normalità e convenzione sociale (“se lo baciò e gli asciugò il sudore che scendeva in minuscole perle dai capelli usando le proprie guance, ne aspirò un po’ con il naso e avvertì nella bocca il sapore salato delle lacrime, e mentre stringeva forte suo fratello seppe che non era sola, non sarebbe mai stata sola con lui, anche se era fatto male, era un uomo rotto. Per questo era un uomo pieno di verità”).
Il tema della solitudine risulta necessariamente connesso a quello della comprensione di sè, poiché chi è solo, inevitabilmente, ricerca nel proprio animo un rifugio, o una logica, capaci di ricondurre la tragica (o divina) scelta di un’esistenza solitaria entro i binari di una propria intima normalità, anni luce lontana dalla normalità in senso sociale.
Durante l’arco della sua vita, Mimì esterna il proprio anelito di comprensione esistenziale, sempre associata all’idea di “tepore”, rannicchiandosi in posizione fetale entro improbabili anfratti.
In quanto figlia della propria madre anche Arianna, una volta toccata con mano l’insufficienza dei risultati cui l’uso razionale della cultura può condurre, riscopre l’amore per la propria terra, l’istintualità e la passione per ciò che non si vede ma si sente, ed al pari di Mimì ricerca la comprensione di sè adottando la medesima postura, quasi un atto di protesta per essere stati generati in un mondo lontano anni luce da quello che si sente effettivamente di essere.
Anche sotto questo profilo, l’unica differenza fra le due donne risiede nel tasso di contaminazione subìto per colpa delle sovrastrutture sociali: Mimì nasce e pulsa instancabilmente come un cuore a cielo aperto, non patteggia, non si piega ma, ammantata di spaventosa coerenza, semplicemente vive; invece Arianna, per i primi trent’anni di vita subisce le “contaminazioni” dell’epoca moderna e solo all’ultimo, grazie alla forza della propria madre ed all’irrazionale tragicità di un passato incompreso, riesce a spezzare le catene da ciò che è ordinario e a chiudere il cerchio. Una volta compiuto questo passo, riuscirà ad aprire le vene della propria naturale sensibilità, riconoscendola quale unico strumento idoneo alla comprensione di se stessi, che è poi il solo in grado di controbilanciare l’inevitabilità della morte. Per iniziarsi entro questo nuovo cammino, tuttavia, Arianna avrà bisogno dell’imprescindibile aiuto di Mimì che, su richiesta della figlia, la avvolge in un notturno abbraccio col tepore del proprio corpo, trasmettendole in tal modo una nuova forza ed una rinnovata consapevolezza.
Ippazio e Biagino, ciascuno a proprio modo, rifuggono dalla conoscenza di sé stessi: il primo, come visto, verrà ricondotto sui binari prematuramente abbandonati solo grazie all’amore ed alla dedizione di Mimì, quindi con l’ausilio di un fattore esterno capace di piegare le resistenze di un ego vigliacco e senza mordente; il secondo, perso nei meandri di un mondo mistico e surreale, lungo lo svolgersi della trama rimane in un eterno stato di incoscienza, incapace di plasmare la propria epidermica istintualità in qualcosa di intellegibile.
Questa perenne contrapposizione di opposti, che traluce lungo tutto il romanzo, trova una sintesi finale che sancisce il prevalere della vita sulla morte, anche grazie all’escamotage rappresentato dalla perdita della coscienza di sè (è il caso di Biagino): il punto di equilibrio fra l’intenso e consapevole sentire di Mimì e la condizione di primitiva incoscienza di Biagino è rappresentato dal gesto di Arianna che, nel versare il vino sulla terra, in un orto selvatico trapuntato di fiori campestri, esorcizza la morte, guadagnandosi la riconoscenza delle anime trapassate grazie a quel fugace, ma intenso, sorso di vita.
Il romanzo di Desiati è, in definitiva, un affresco a tinte forti, scritto con uno stile che si distingue per la sapiente alternanza fra dialoghi semplici e rurali, in linea con la semplicità dei protagonisti, e sofisticate descrizioni paesaggistiche, lumeggiate con la maestria di chi, ancor prima di descrivere gli ambienti, li ha vissuti e li porta sulla propria pelle: l’intenso spaccato di una realtà maledetta, dolce e dannata al tempo stesso che, senza alcun dubbio, non potrà lasciare indifferente il lettore.
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una recensione di Marco La Terra [email protected]
14 luglio 2011
Una bellissima recensione che mi ha incuriosito e invogliato a leggere il libro!
26 luglio 2011
Grazie per il tuo commento circa la recensione! Ti è piaciuto il romanzo? Io ho particolarmente apprezzato la sagace alternanza fra intense descrizioni paesaggistiche ed i dialoghi, secchi, diretti, immediati, ma parecchio comunicativi nella loro valenza espressiva.
16 agosto 2011
Oggi si rischia di vincere lo Stregacon 250 pagine. Epilogo approssimativo e storia che meritava di esssere trattata con meno leggerezza. Non è la tematica a rendere importante un libro, ma il modo di raccontarla e di trasmetterla. Scrittura semplicissima, quasi banale. A parer mio sembra più una sceneggiatura e non mi stupirebbe una prossima trasposizione cinematografica. Unico vantaggio di aver letto il libro? risparmiare il biglietto d’ingresso al cinema.