Recensione, per lo Speciale Premio Strega, di Raffaella Foresti
“Il possibile di una donna brutta è così ristretto da strizzare il desiderio. Perché non si tratta solo di tener conto della stagione, del tempo, del denaro come per tutti, si tratta di esistere sempre in punta di piedi, sul ciglio estremo del mondo. Io sono brutta. Proprio brutta”.
Il brano è tratto dall’incipit del romanzo La Vita Accanto, di Mariapia Veladiano, pubblicato da Einaudi, “vice” Premio Strega 2011 (il riconoscimento, ricordo, è stato assegnato a Edoardo Nesi, con l’opera Storia della mia gente, Bompiani).
Premetto di non condividere le mille discussioni sorte, anche nel corso di quest’ultima edizione, intorno all’assegnazione del più importante premio letterario italiano. La mia posizione in proposito si avvicina molto a quella espressa dallo scrittore Aldo Nove, quando ha affermato che c’è solo una cosa più noiosa del Premio Strega, ed è l’annoiato protrarsi delle polemiche, sempre le stesse, ogni anno, intorno al Premio Strega.
La Veladiano non ha vinto, è vero, ma dopo aver ricevuto il Premio Calvino nel 2010 ed esser stata nominata Autore della Dante nel giugno di quest’anno, ha lasciato il Ninfeo di Villa Giulia con una luccicante medaglia d’argento. E si vocifera che siano già stati venduti i diritti dell’opera al regista Marco Bellocchio e che presto ne trarrà un film.
E ora che numeri, premi e riconoscimenti sono stati dati, possiamo finalmente parlare di letteratura.
Ho letto questo romanzo tutto d’un fiato, come da anni non mi capitava di fare, condividendo la medesima sorte di tutti coloro che, aprendo il libro, una riga dopo l’altra ne siano stati completamente affascinati.
La storia raccontata è quella di una bambina (poi adolescente e poi donna, come l’incipit del romanzo lascia intendere) irrimediabilmente brutta. “Ho i pezzi al loro posto – ci racconta la giovane protagonista – “però appena più in là, o più corti, o più lunghi, o più grandi di quello che ci si aspetta”. La descrizione rende, non servono ulteriori dettagli. Poche parole, sapientemente evocative, che istantaneamente catturano il lettore conducendolo sino al cuore del romanzo.
Rebecca. Solo al terzo capitolo ci viene rivelato il nome della protagonista, quando già sappiamo tutto del suo aspetto, proprio come – tristemente e inevitabilmente – avviene nella vita, dove le proiezioni del cristallino sulla retina arrivano al cervello prima di qualsiasi altra informazione. La sua bruttezza suscita turbamento, vergogna, cattiveria, in famiglia e nella società, tanto da costringerla ad un isolamento forzato, condannandola (per sempre?) ad un destino di non amore. La musica e la sua passione per il pianoforte, forse, la potranno salvare.
Il tema, certamente molto sentito in questi anni votati all’esasperazione dell’estetica e dell’immagine (e non è un caso il romanzo, allo Strega, sia stato il più votato dagli studenti), è quello dell’intolleranza, intesa come una delle molteplici sfumature del male (si percepisce, nel romanzo, l’ampia formazione teologica dell’autrice) contro il quale lottano passione e talento, e la ricerca costante di verità e relazioni umane che chiedono solamente di essere tali.
Il soggetto non è così originale, si dirà. Eppure l’esito non è banalmente consolatorio. “Non ero il prodigio del pianoforte che aveva visto zia Erminia, ma sapevo imparare in fretta e lo volevo con tutte le mie forze”. Non c’è un lieto fine rassicurante, ma una resistenza quotidiana alla realtà, fatta di piccole cose, messa in atto con forza d’animo, sospinta dalla passione.
Diversamente da Lulù Delacroix, l’eroina di Isabella Santacroce, Rebecca non cavalca le ali della fantasia, non possiede formule magiche per sconfiggere i pregiudizi, origine di ogni infelicità. La sua non è una favola: Rebecca “osserva, indaga, ascolta, percepisce, intuisce” e ci lavora sopra, giorno dopo giorno.
Questa, a mio parere, la miglior qualità del romanzo. L’aver affrontato l’afflizione di questi anni esaltando la dignità e il coraggio, quando sarebbe stato molto semplice scadere nel patetismo o nella vendetta, concetti certamente molto più alla moda. Il tutto reso da una scrittura magnificamente aggraziata, di quelle che non si vedono tanto spesso.
La Veladiano, esordiente a cinquant’anni, ci racconta la sua storia “in punta di piedi”. Proprio come Rebecca, la scrittrice si pone “sul ciglio estremo del mondo”, un luogo ai margini di tutto dal quale, tuttavia, si gode la miglior vista sull’orizzonte.
Se anche voi volete un posto in prima fila, correte a comprare il romanzo.
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Raffaella Foresti [email protected]
15 luglio 2011
Solo per dirvi che ho condiviso questa recensione sulla bacheca facebook della Veladiano e che mi ha risposto scrivendomi di averla apprezzata molto. Anna
23 novembre 2013
Io so cosa passa Rebecca. Io l’ho passato in una vita. Sono sempre stata disprezzata da tutti ed emarginata. Mi hanno picchiato, umiliato pubblicamente, conoscenti ed estranei. Persino i bambini non mi salutavano ed andavano a dire al papà o alla mamma: “Guarda mamma (o papà) quanto è brutta quella ragazza!”. Ho sempre desiderato una vita come tutte le altre. Ancora adesso che ho 37 anni. Sono sola ed emarginata ed ancora insultata gratuitamente (non più come quando ero ragazza, grazie al cielo, ma ancora qualche scena di insulto pubblico c’è ancora. Il motivo: sono troppo brutta. E l’ho anche sentito origliando. Ovviamente non ho mai conosciuto l’amore. E faccio una fatica per curarmi ed essere sempre impeccabile, ma ahimè non serve a niente. A volta vorrei morire.