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L’Ombra di Me Stesso

Racconto breve di Giorgio Michelangelo Fabbrucci

 

Questa sera ho visto l’Ombra di Me Stesso camminare sul marciapiede. Non un pezzo d’asfalto qualunque; sto parlando di quello che calpesto spesso, per andare a comprare le birre, quando sono amareggiato. C’é una bettola (dal nome inglese ovviamente) con un barista sgrammaticato; un padre ubriacone a cui è morto l’unico figlio e che qualche giorno fa si è rotto una gamba, oppure un braccio; qualche malato di aids che va per i cinquanta (so che sono malati perché quando ero piccolo li vedevo andare a prendere il metadone in un’USL del centro) e due arabi oranti, davanti a due slot machine canterine.

L’Ombra di me stesso l’ho scorta proprio dalla parte opposta del lazzaretto alcolico che non chiude mai, appoggiata come un metallaro degli ottanta, su una transenna pubblicitaria. Una gamba a penzoloni, anfibi slacciati, un chiodo di pelle sporca e una bandana nera di benzina. Non ho provato spavento, ne timore; tanto meno curiosità. In altre parole era un’immagine che già conoscevo bene. Lo so, era incarnata in un essere reale, ma se siete abituati a convivere con un lato oscuro, come ci si può stupire una volta che lo si incontra?

Poco prima, con accentuata cortesia (un modo come un altro per elevarsi dal sudiciume umano a cui spesso mi sento costretto), avevo chiesto al barista: “Allora come sta? La trovo in forma; è un vero piacere rivederLa!”. Lui mi ha risposto: “siamo qua”; un’asserzione gergale, dal sapore texano, molto in uso in questo Nord riservato e tirchio di esternazioni, per esprimere la fortuna di essere al mondo, senza farsi troppe domande sul perché e soprattutto sul “per come”.

Lo troverete ridicolo, forse singolare ma all’Ombra di Me Stesso non ho chiesto nulla. Gli sono passato accanto, tintinnante di Moretti in sacchetto bianco latte, con noncurante sufficienza. Non so se ha sorriso; se l’ha fatto, era di certo una smorfia di libertà, più vicina al Principe di Questo Mondo che alla compassione del Cristo. L’ho superato di qualche passo. Lui ha fatto un balzo: tanto piccolo, quanto eloquente, plastico, studiato; una scalpellata di spocchia, in travertino arroganza. Mi ha seguito. Mi si è messo al fianco. Silenzioso. Il semaforo era rosso e ci siamo fermati. In verità solo io ho terminato il passo, guardando paziente la mia destra e la mia sinistra. Lui ha cominciato a scagliare calci potenti contro una grossa pianta. Non lo faceva con gioia, ne con rancore; piuttosto erano calci impegnati, quasi fosse essenziale devastare quel gigante arboreo, nella speranza di uno schianto hollywoodiano sul tettuccio di qualche sventurato a motore. E così è stato. Non vi descrivo la macchina, sembrerei il solito invidioso, ma la pianta dopo qualche oscillazione (quasi a prendere la mira) ha disegnato un arco nel cielo, caracollando con precisione intelligente. Una bomba americana, in formato vegetale. Al momento ho provato terrore; nonostante la sensazione istintiva, l’Ombra di Me Stesso mi dava sicurezza, in un certo qual modo. Non so spiegare il perché; quella presenza diabolica faceva sembrare ogni istante d’orrore, un male necessario; una sbandierante vittoria della Giustizia. Così è salito sul cofano bollente, ha sventrato i cristalli a pedate ed infine ha trafugato i portafogli ai corpi morenti. Fortunatamente mi sentivo abbastanza distante: abbastanza per non considerarmi uno spalleggiatore; abbastanza per godermi la scena. Ho ripreso lesto la mia camminata; lui mi è corso al fianco: ancora una volta sorridente,per di più profumato. “Non ti preoccupare” – mi disse – “mi prenderò tutto il merito con la Polizia”.

Continuammo verso casa. Il mio appartamento si trova al fianco di un vecchio palazzo a 8 piani del ventennio. Su uno dei balconi, tratteggiati con razionalismo estremo, un vecchio robusto cigolava avanti e indietro le sue giornate. Sempre in canottiera, sempre triste. “Ma ti pare il modo?” – mi disse L’Ombra, che poi continuò, questa volta rivolto al vecchio, con un discorso augusto. Per quanto vi possa sembrare raccapricciante, parlava con grande cura del senso della vita e di come questo fosse stato smarrito dal povero vecchio che, come ricompensa ai mille sacrifici, si trovava a marcire su di un balcone, calpestando le sue ultime ore, l’una identica all’altra. Mentre tentavo di sfuggire alla verità di quelle parole, costretto dai principi, a trovarne un qualsivoglia errore, l’Ombra di Me Stesso interruppe il suo verboso brogliaccio, interpretando così, su due piedi, il balletto del defunto Micheal Jackson “Remember the Time”. Nel video, Michael, si trovava al cospetto della coppia reale egizia, di cui il faraone era un famoso comico di colore (“uno stupido negro che ha fatto successo con filmetti pattumiera d’oltreoceano”, mi suggerì poco dopo l’Ombra di Me Stesso, cercando di insegnarmi i passi base del Moonwalking).

Fatto sta che il vecchio, tutto rinvigorito ed eccitato dal balletto sopraffino, iniziò ad emulare l’oscuro giullare d’occasione: inciampò e cadde dal balcone.

Penso che il gonfio corpo vetusto, rimase nelle sterpaglie del giardinetto d’entrata per quasi 13 ore. Sentì le ambulanze solo la mattina seguente. Questo per ragguagliarvi su quanto fosse significativa la presenza del vecchio passeggiatore della terza balconata.

Giunti al cancello del mio cortile, L’Ombra di Me Stesso mi strinse la mano, a mo’ di saluto. Congiunti i palmi, prese a cambiar di colore. Sarebbe troppo banale descrivervi la variazione cromatica, oltremodo classica nei suoi canoni luciferini. Gli chiesi cosa volesse davvero e dopo qualche istante prese a rispondermi, parlandomi di atti di distruzione creativa, di tabula rasa, di guerra. “E’ un discorso troppo lungo. Non mi va di parlarne adesso”.

Ci facemmo un caffè e guardammo la televisione. Indossai il pigiama ed accarezzai il gatto. Sdraiato sul fianco, sentivo le palpebre tapparella cadere giù. Ci spegnemmo poco dopo assieme, in un tramonto abat jour.

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Author: Giorgio Michelangelo

Giorgio Michelangelo Fabbrucci (Treviglio, 1980). Professionista del marketing e della comunicazione dal 2005. Resosi conto dell'epoca misera e balorda in cui vive, non riconoscendosi simile ai suoi simili, ha fondato gli Alieni Metropolitani... e ha iniziato a scrivere.

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