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Sei tesa e distratta, forse per darti un tono. Pensi, a che pensi?  Dai forse un senso alla tua giornata? Appoggi le spalle allo schienale della sedia, rifletti. Parli a qualcuno, accenni, scherzi, ridi, sorridi ma in fondo agli occhi conservi un’idea.
Un’idea che, alla fine, non è che un sogno tutto tuo e che ogni giorno, ogni svolta del sentiero, si dimostra falso. Ma tu hai un’idea e questa logora ogni aspetto della tua esistenza perché devi riuscire a far quadrare il puzzle. Devi farcela perché l’immagine che tu hai in mente deve concretizzarsi.
Come nell’idea.
Scacci le persone come le api, senza nemmeno vederle. Povere api che mai e poi mai vorrebbero pungerti o ferirti ma che, alla fine, stremate dalla violenza del tuo scacciarle, si difendono e infliggono il pungiglione nella tua pelle, nella tua carne, morendone poi, senza gloria e con rimorso.
Oppure, con incantesimo di fata, le trasformi in cuccioli paffuti e pelosi, morbidi alla carezza. Li trattieni a te, in grembo e li osservi con fare profondo. Indaghi se essi ti porteranno in sorte il paradiso oppure solo una zuppa. Cerchi di prevenire le minacce, le sconfitte, i tormenti.
Lasci loro la libertà e non ti disturba la disattenzione perché scusa la tua. Tutto serve, niente offende, se esiste un vantaggio.
Ma poi ti sovviene l’idea e lei è troppo forte, troppo importante. E non riesci proprio  ad arrenderti perché l’idea deve ubbidirti, come un cucciolo anche se è ben lontana dall’esserlo.
Ogni gradino della tua scala deve procedere dal precedente e precedere il successivo, perché l’idea è lineare.
Sì, tu hai un’idea ma lei che ne pensa? È possibile, in fin dei conti, possedere un’idea? Lei che sorge spontanea  come un fiore di campo, indomabile, appena visibile agli occhi dei distratti.
Un’idea è un concetto, un’astrazione palpabile e fragile come una corolla bagnata di rugiada che appena si schiude. Un’idea è capace di entrare dentro di te e attraversarti come la luce fa con il vetro, lasciandoti solo colori frammentati dal prisma e calore.
Quel calore che scalda il tuo cuore e che non sai da dove sia giunto ma che, mentre ci rifletti, già se ne è andato perché è solo traccia di un’idea.
Un piano, ecco, quello lo puoi controllare. Lo puoi seminare, come il fattore fa col grano; vederlo crescere, con emozione, con materna apprensione e anche amore, perché no? Ma resta un piano e quando la tua mano coglie la spiga e la sgrana la tua felicità è quella del contadino che ha coltivato la terra e ne viene gratificato dai frutti. Non è l’emozione dell’idea, quella dell’artista, che coglie l’intuizione del mondo e la trasfigura nell’immagine.
E così tu non hai un’idea, ma solo un campo da coltivare per sfamarti. Trasformi la necessità del grano nella bellezza di una rosa, affondi le dita nella farina appena molata, ancora calda, provandone un piacere ancestrale, consolante.
Ma una rosa è una rosa e non la puoi mangiare. La puoi afferrare e recidere, certo. La puoi stringere, violare, strappare, distruggere. Ma non ti salverà della fame né dalla sete. Può solo riempirti di felicità quando si schiude.
Un’idea entra dentro di te senza fermarsi. Puoi solo richiamarla, osservarla, accoglierla. Un’idea non è paziente perché è perfetta. Un’idea ti possiede, ti logora e infine ti soffoca.
L’idea di una rosa è rosa al massimo grado, è rosa pura.
E quando sei pittore non coltivi il grano ma compri il pane, lasciando ad altri il sudore dei campi. Quando sei pittore obbedisci alla tua natura e dipingi, tratteggi. Delicatamente architetti un ambiente, una colonna, un viso, delle labbra, la carezza delle dita di un angelo. E ricerchi un’idea.
Ora ti osservo meglio e confermo. Sei tesa e distratta, forse per darti un tono. A che pensi? Appoggi le spalle allo schienale della sedia, rifletti. Parli a qualcuno, accenni, scherzi, ridi, sorridi ma in fondo agli occhi conservi un’idea.
Ma se non riesci a raffigurarla sulla tela; se le tue mani devono pensare alle forme perché gli occhi della mente non le possono vedere; se quello che alla fine desideri è solo raggranellare qualche moneta per il pasto, allora non ti rimane che una strada: getta il pennello, disdici l’affitto della soffitta e accetta che il tuo destino non è inseguire un’idea ma quello di sgranare le spighe per nutrirti e va … per campi.

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un racconto di Marco Arcieri

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