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“Mario si era innamorato di Madame Psycosis fin dai primi programmi perché gli sembrava di ascoltare una persona triste che leggeva a voce alta le lettere ingiallite che aveva tirato fuori da una scatola da scarpe durante un pomeriggio piovoso, roba di cuori spezzati e gente amata che muore e dolore Americano, roba vera. È sempre più difficile trovare arte che riguardi le cose vere.” (David Foster Wallace, Infinite Jest, pag. 788)

Ciao Edoardo, oltre che essere un padre di famiglia, uno scrittore, un ex imprenditore, sei anche il traduttore di “Infinite Jest”, il capolavoro di David Foster Wallace. Ti andrebbe di raccontarci come è stato il tuo incontro con quest’opera e più in generale con la produzione letteraria dell’autore statunitense? In conclusione del tuo commovente omaggio a Wallace contenuto nella riedizione di “Una cosa divertente che non farò mai più” (Minimum Fax, 2010) scrivi “Come gli oracoli, sembra voler dire cose diverse a persone diverse. Ma oggi posso dire che non una delle sue parole ha cambiato significato, per me, dopo il suicidio. Mentre lo rileggo continuo a notare, anzi, quanto fosse frequente e potente il comico, nella sua opera, e ci sono mattinate terse spazzate dal vento in cui sono sicuro di ritrovarmi a vivere dentro uno dei suoi giochi, d’essere un suo personaggio preso nella morsa d’una certezza ridicola e mordace, quella d’aver imparato a vivere da un suicida” e sono parole che rappresentano perfettamente anche il mio pensiero, visto che Infinite Jest, insieme a La scopa del sistema, è stata una svolta decisiva nella mia vita.

Cosa ti ha spinto a tradurre un’opera di 1500 pagine, così complessa e stratificata? Chi ti ha aiutato in questa avventura e quanto tempo hai impiegato? E quale è stato il rapporto con l’autore durante la traduzione?

L’avevo letta e proposta a vari editori, l’Opera. Ma nessuno aveva avuto il coraggio di avvicinarsi a un’opera così immane scritta da uno sconosciuto – perché, più o meno, questo era DFW alla fine degli anni novanta in Italia. Troppo alti i costi di traduzione, dicevano…il conto economico…Poi Procacci si innamorò dell’idea dopo averne parlato con me, e in un colpo solo comprò – davvero alla Procacci – Infinite e La Scopa. Perroni tradusse mirabilmente La scopa e i primi tentativi di traduzione di Infinite – pur di giovani, ottime traduttrici – risentivano della difficoltà di portare in italiano un romanzo che, prima della nostra traduzione, non era mai stato tradotto, in nessuna lingua. Capii che dovevo provarci io. Dedicare a una persona che non conoscevo un anno e mezzo della mia vita. Del resto, ero stato un tennista anch’io, ed ero stato a Harvard, e per i terroristi giovanili e letterari ho sempre avuto una certa simpatia intellettuale. È stata un’esperienza fondamentale. Seminale. Per me e per la mia scrittura. Ho imparato moltissimo. Con DFW ci siamo scambiati dei fax, attraverso la sua agente. Mai parlato con lui. Non era un tipo facile.

Ogni volta che si legge un’opera tradotta si sa che inevitabilmente si finisce per perdere tutta una serie di sfumature legate alla lingua madre, ecco, sinceramente, che cosa un lettore italiano può aver perso rispetto alla versione originale?

Per quanto mi sia sforzato di cercare di rendere al meglio la ricchezza della scrittura di Wallace – e credimi, mi sono sforzato, è stata la cosa di gran lunga più difficile che ho fatto in vita mia – sono certo di non esser riuscito a restituire tutto. Forse, non ci si riesce mai, in nessuna traduzione. Però il libro si legge bene, e non era facile riuscirci. La complessità si unisce alla scorrevolezza estrema, all’uso di termini assolutamente astrusi, giochi di parole, strizzate d’occhio al lettore e rimandi a personaggi e accadimenti avvenuti centinaia di pagine prima. Si perde tutto ciò che è solo americano. Tutti i programmi televisivi, le sigle, i prodotti…che poi per Wallace erano importanti…Considera anche che non ho potuto usare lo strumento delle note del traduttore perché il libro aveva già molte pagine di note e non volevo appesantire tutto con un altro livello di lettura…

È quasi impossibile riassumere compiutamente “Infinite Jest”, per parlarne bisognerebbe scrivere un volume di pari lunghezza e a questo proposito consiglio solo di leggerlo. Tutto il romanzo ruota intorno al tema dell’Intrattenimento (ma anche questo significa a mio avviso ridurre eccessivamente la portata del libro) visto nelle sue varie forme, un intrattenimento che diventa Dipendenza (il film che non si può smette di vedere, le droghe, il tennis, le donne) e a mio avviso descrive perfettamente la nostra epoca fatta di uomini completamente schiavi di Qualcosa, che sia questo effimero oppure no, ma nello stesso tempo incredibilmente soli, persi in se stessi. Gli stessi ragazzini che giocano a Tennis vengono istruiti per essere mandati nel grande show per poi essere sbranati dal pubblico e la scuola li educa a costruirsi delle difese per non essere travolti. E in questo girone di Intrattenuti ci metto pure stesso, attratto dai libri in maniera quasi compulsiva.

È un libro che ha al suo centro il concetto di dipendenza, certo. Ma è uno di quei libri rari che davvero è impossibile ridurre a una sola visione. E secondo me non racconta solo la nostra epoca. E’ ambientato nella nostra epoca, ma in un certo senso ne racconta molte. Racconta la discesa lungo i pozzi dell’animo umano, e dunque diventa molto di più del Libro Della Mia Generazione, come in effetti è. È anche molto, molto divertente. Comico, in certi punti. Lo tengo sul comodino. Lo rileggo spesso.

Quale fra le varie sottotracce del romanzo ti hanno più coinvolto e qual è stato il tuo spunto di riflessione a lettura conclusa? Insomma, perché “Infinite Jest” dovremmo leggerlo? Cosa ci resta a lettura conclusa, oltre ad una straordinaria tecnica stilistica? O è tutto davvero solo uno scherzo infinito, ritessendo il filo con Amleto?

Ma la vita, anche la nostra, davvero non è che uno scherzo infinito! Rimane tutto, di questo libro. I ragazzini tennisti, Mario, anche Orin, la Più Bella Ragazza di Tutti i Tempi, i terroristi canadesi sulle sedie a rotelle…Wallace è grande quando racconta la giovinezza e le sue speranze, ma in genere questo i critici non lo prendono…Gately mi sembra fondamentale nella struttura del libro. La grande rissa coi Boscaioli. C’è quel momento lancinante quando alla fine piange mentre stira guardando il football alla tv e rimpiangendo di non aver fatto il giocatore di football…Si fa prima a dire chi m’è garbato meno: Steeply e Marathe.

Uno degli aspetti che maggiormente colpisce di “Infinite Jest” (ma anche di tutte le sue opere) è la capacità di DFW di approfondire qualsiasi argomento, dal tennis alle droghe, dal cinema alla depressione, una sorta di libro-enciclopedia. Per quale motivo secondo te DFW ha voluto entrare così tanto in ogni singolo aspetto? Non c’è nulla di abbozzato, di eluso nella sua narrazione, eppure tutto sembra assolutamente indispensabile, come se ci fosse una rappresentazione del mondo in tutte le sue sfaccettature.

Quando gli chiesi come dovevo regolarmi con le traduzioni mediche più complicate, se dovevo ammorbidire qualche termine, lui mi scrisse che gli piaceva l’idea che, se un lettore trovava leggendo IJ un termine che non conosceva, dovesse andasse a sfogliare l’enciclopedia. Lui, comunque, credeva che fosse necessario pensare di più. Andare a fondo sulle cose e dentro le cose. Conoscerle. E’ una delle lezioni.

Volevo chiederti se anche per te “Infinite Jest” è il più grande romanzo mai scritto sulle dipendenze, sulla droga, sulla malattia. Si fanno tanti titoli quando si parla di queste questioni ma non c’è altro libro che io ho trovato così esaustivo nel descrivere sintomi, problematiche, case di recupero, ricadute, traumi.

Forse sì. Anche perché non cade mai nell’esaltazione della droga, come invece succede quasi sempre agli scrittori bravi. Nel libro, chi si droga è sempre un po’ scemo o colmo di problemi insolubili, ma mai un eroe. Neanche di striscio. È sempre uno sfortunato incapace di controllarsi, ed è la pietas di Wallace a incaricarsi di raccontarcelo.

Ci sono altri due aspetti che mi colpiscono ogni volta che leggo questo libro e sono l’aspetto comico di molte vicende e di ambientazione, anche drammatiche che vengono trattate, e una incredibile capacità di rendere reali i ragazzini della Enfield Tennis Academy che cercano di diventare dei campioni. Cosa ne pensi?

Ma è anche un grande romanzo comico, “Infinite Jest”, certo. Sai che Wallace stesso era un ottimo tennista, e non c’è gioco che possa spingerti – e a volte costringerti – dentro te stesso quanto il tennis. Certo, poi attraverso il tennis ti trovi a leggere dei sogni adolescenziali, e dunque dell’ambrosia della vita.

Quali sono i personaggi che più ti hanno colpito di “Infinite Jest” e perché? Io per esempio provo una profonda attrazione per Joelle Van Dyne – Madame Psychosis, Mario Incandenza e Michael Pemulis.

Joelle e Mario sono i cuori pulsanti del libro, con Hal. Pemulis mi piace ma non mi identifico mai, se non quando vomita per la paura di giocare. Anche Orin, con la sua vile ambizione, mi garba molto. Figlio del caso, fortunato inetto. Si, mi garba molto.

Il romanzo si apre con il crollo di Hal Incandenza, grande promessa del Tennis, durante tutto il romanzo grava il peso del suicidio, eppure il finale sembra voler aprire una porta di speranza, una sorta di via d’uscita dal dolore che ci attanaglia ogni giorno ma per farlo bisogna saper resistere, lottare continuamente e non tutti ce la fanno. Quando l’ho riletto, in questi giorni, ho subito pensato a David che invece non ce l’ha fatta ma mi sono anche reso conto i suoi libri non ti mettono mai voglia di suicidarti ma di vivere, di crescere. Come te la spieghi questa cosa?

Perché secondo me non voleva suicidarsi davvero. Gli è toccato farlo. Per via del dolore. E comunque non so. Non sappiamo e non sapremo mai com’era, vivere da David Foster Wallace. E poi per me non è morto. Uno scrittore, quando è grande, non muore mai. Lo puoi leggere sempre. Dici bene, però. I suoi libri ti fanno venir voglia di crescere. È un’osservazione brillante. Bravo.

Leggendo “Infinite Jest” e tutte le sue opere emerge la figura di un uomo molto lontano dalla figura classica dell’intellettuale. Wallace è stato un autore capace di scrivere di Infinito e di aragoste, di depressione e di Federer con la stessa attenzione e curiosità. Secondo te non ci dovrebbero essere parecchi intellettuali e scrittori, italiani e non, che dovrebbe forse trarre un valido insegnamento da questo autore anche da questo punto di vista, scendendo un po’ dalla cattedra e aprendo gli occhi sul mondo che li circonda?

Sì, certo. Ma vedi, da Wallace si può imparare molto, ma è necessario spogliarsi di tutto. E’ molto faticoso e difficile. Traducendo, ti metti subito in una posizione diversa e più bassa rispetto all’autore. Forse è per questo che io per DFW provo solo ammirazione. Poi, sai, per imparare bisogna averne voglia…

Vorrei chiudere questa intervista, chiedendoti cosa ti ha lasciato David Foster Wallace come scrittore, se e quanto influenza la tua scrittura e se fra gli autori contemporanei vedi qualcuno che ti sembra possa raccogliere il testimone o comunque scrivere in un futuro qualcosa della stessa portata.

Mi ha lasciato moltissimo. La necessità dello sguardo e della tolleranza. L’amore per il minuscolo. Il coraggio di ambire. Non vedo nessuno in grado di avvicinarsi a lui. Se pensi a Pynchon e De Lillo, ti accorgi che volevano fare la stessa cosa, e cioè raccontare un mondo squilibrato attraverso personaggi memorabili, ma più vanno in profondità negli argomenti e meno diventano leggibili. A Wallace non accadeva. Lui riusciva a essere complicato eppure leggibile. Sempre. Però voglio anche dire, in conclusione, che io lo capii subito che Wallace era di un’altra categoria rispetto a tutti. Fin da Per sempre lassù, il suo primo racconto pubblicato in Italia. Su Panta. Fu quel miracoloso “Ciao” alla fine…

Grazie Edoardo e grazie a David Foster Wallace.

Pubblicato su Lankelot, 02 giugno 2011

Brevi note:

Edoardo Nesi (Prato, 1964), scrittore, regista e traduttore (“Infinite Jest”). Ex imprenditore.
David Foster Wallace (1962 – 2008), scrittore statunitense.
David Foster Wallace, Infinite Jest, Fandango, 2000; Einaudi, 2006. Traduzione di Edoardo Nesi. Prima edizione, 1996.
Per approfondire: NESI in Lankelot + intervista a NESI e PENNACCHI sul LAVORO.
Andrea Consonni, giugno 2011
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