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Sbang Sushi

Racconto breve di Giorgio Michelangelo Fabbrucci

 

Questa sera ho una gran voglia di sushi. Se “Al” fosse ancora vivo mi avrebbe aspettato in macchina, al posto di guida. Con l’espressione di chi parla di ragion di stato, mi avrebbe chiesto: “Gradisce del cibo giapponese per questa sera Sir?”

Stasera dovrò arrangiarmi e portare queste vecchie ossa arrugginite fuori dalla villa, solo. Mi dirigo al sushi take away. In realtà non è un vero e proprio fast food; di certo sono veloci nell’avvolgere il riso nella foglia d’alga e altrettanto celeri nell’ordinare con precisione i piccoli pasti nel vassoio, come fossero soldati in terracotta. Ciò nondimeno non è un take away. Ci sono due o tre tavolini di acciaio smerigliato, con dei trespoli (perché chiamare sedie quei cilindri smilzi saprebbe d’ingiustizia). Con otto posti scomodi e qualche dettaglio lounge nell’arredamento,  l’attività si è guadagnata lo status di ristorante giapponese, attirando clientela pettinata. Io di capelli ormai ne ho pochi. In famiglia non ci sono casi manifesti di calvizia… comunque è il caso che controlli nel database. Forse portare quella specie di divisa per anni, non ha permesso alla cute di respirare a sufficienza ed ora ne sto pagando le conseguenze.

Arrivo al sushi bar. Dico all’automobile di posteggiare dove trova, con il divieto di comportarsi come i maleducati dei giorni nostri. “Evita la doppia fila” gli ordino “ ed anche i posteggi per disabili, o diversamente abili che dir si voglia”.

Entro. Che fortuna: sono solo per il “porta via”. Per la cena con servizio un paio di coppie stanno sedute sui trespoli ed in effetti,  ad osservarli bene, sembrano proprio pappagalli. I volatili maschi, nelle loro camicette inamidate, puzzano di gel (i sensori mi comunicano essere brillantina prodotta dall’Oreal de Parìs) e fanno mostra dei loro visi lampadodepilati con mal celato orgoglio. Le pappagalline sono molto attraenti. Indossano vestitini semplici, a tal punto attillati da risvegliare i vecchi ormoni claudicanti del sottoscritto. Sebbene siano allettanti, dalle loro boccucce di rosa fuoriescono parole di fogna. Probabilmente figlie della periferia che tentano la fortuna con i figli di papà.

Cerco di non farmi distrarre. Non sono in servizio, non lo sono da anni, e seppur sia possibile che i signorini sniffino coca (la loro eccitazione vi assicuro è alquanto sospetta) devo mettermi nella capoccia che non è più affar mio. Inizio a focalizzare l’attenzione sul menù: hurumaki, nori, temaki e california roll… quest’ultima dicitura anglofona mi fa salire i nervi. Ma dico io, se voglio mangiare giapponese è mai possibile che vi sia la California nel menù? E Pearl Harbor ce la siamo dimenticata? Insomma, se ci fosse stato scritto kamikaze roll me ne sarei fatto una ragione, ma California è assolutamente inaccettabile. “Scusami caro” mi rivolgo al cameriere facendogli un sorriso alla Connery “mi sai dire perché si chiamano California?” Il cameriere sorride di rimando e dopo qualche secondo di silenzio, necessario per comprendere se io sia un vecchio rimbambito rompi balle o più semplicemente un vecchio curioso rompiballe, mi risponde: “guardi, sono stati dei giapponesi a chiamarlo così, per farlo meglio accettare agli americani degli anni ’60, che non guardavano di buon occhio il pesce crudo”. “Ingegnoso”  gli rispondo. “Guardi signore che il sushi non è solo cibo ma anche cultura”. Davanti alla saggezza wikipedica del cameriere mi taccio e guardo a terra; in fondo sono soddisfatto che vi sia della gioventù tanto orgogliosa del proprio mestiere da approfondirne gli aspetti storici. Preso da un afflato di filantropia, chiedo al giovane Cicerone San di far di testa propria. “Senti. Decidi tu. Mi fido. Ecco, però evita le pietanza false, post autentiche, anglo promozionali… insomma evita California, Florida o qualsiasi altra località balnearia degli States”. Faccio colpo, il cameriere ride, ed anche il suo assistente, che fino a due secondi prima stava giocando a video game sul portatile (i sensori mi avvisano essere la versione 10.3 di campo minato). I miei timpani avvertono un mormorio ostile. E’ la pappagallina mora che si sta rivolgendo alla sua verga inamidata: “Che cazzo ha detto il vecchio, lo hai sentito?”. Mi rivolgo verso di lei. La guardo fissa. Sembro Clark quando si prepara a bucare una parete. Non perforo nulla, eccetto la sua coscienza. Lei diventa rossa, non regge lo sguardo e per qualche istante se ne sta zitta. Mission Complete! Ne ho ancora di forza buon Dio! Abbassa lo sguardo criminale, il cavaliere oscuro sta arrivando! Va beh, a parte le asserzioni onirico infantili sposto lo sguardo dalla pollastrella per farlo tornare al mio piatto in corso d’opera. Un momento. Mi fisso sul cartellone traslucido, sfacciatamente pubblicitario, apposto sopra i trespoli. Recita: “il sushi non è solo cibo, è anche cultura”. Porca vacca… allora il pinguino è stato istruito a dovere! Non è farina del suo sacco, mi ha ripetuto la lezioncina impartita dall’esperto di comunicazione. Ah che triste mondo, che epoca infausta! Che stupido che sono stato, che idiota; credere che quell’aneddoto fosse frutto della suo cuore, della sua passione. Maledetto, è una pecora come le altre, costretto alla cultura per pura opportunità. Non mi fido più e gli chiedo: “ma te le sei lavate le mani? Non vorrei trovarmi dei peli nel pesce…  pardòn, nel sushi” – “no, signore, non si preoccupi. L’igiene prima di tutto” – “ma è uno slogan o sei sincero? Guarda che non mi freghi” – “no  signore glielo assicuro, guardi” e tira fuori una mastodontica confezione famiglia di saponette alla mandorla. “Ok, scusami. Comunque le mandorle le usano i cinesi; nel pollo intendo, non nelle saponette”. Mi guarda interdetto. Il salto logico è troppo impressionante per la sua piccola mente. Ciò nonostante sembra sia in gamba. Il vassoietto in poliestere si sta lentamente arricchendo di prelibati bocconcini. Intravedo del tonno, del salmone, del polpo e… che cos’è quello?

Un pappagallino si alza, sembra aver intercettato i miei pensieri. Si avvicina al piatto, al mio piatto e come se non esistessi  chiede al pinguino “Cos’è quello?” – “Scusami?” – “Questo, questo qui, che pesce è?”. Prima che il cameriere risponda mi alzo di scatto e lo afferro per il collo. “Topo di fogna, chi ti ha dato il permesso di infilare il tuo indice nel mio…” – “Sgombro Signore, è Sgombro” – “di infilare il tuo dito sporco nel mio delizioso sgombro” . Il fighetto è spaventato. Sento la sua paura pulsare sul palmo serrato. Sono ancora forte, lo devo ammettere a me stesso. Non è narcisismo, cavoli: è la pura e semplice realtà. Non so perché mi sovviene alla mente l’immagine di una latta di pelati schiacciata dalla mia mano. Tornato a casa dovrei provare. Insomma è bello misurarsi con delle piccole sfide, ad una certa età, per tenersi in forma.

PAM. Il signorino ha sferrato un calcio, tra le gambe… maledetto, una fitta di dolore parte dall’inguine per giungere alla testa. Compete con la fitta di disappunto e rabbia che sta per azionare il mio destro. SBANG, lo assesto con precisione sulla punta della mascella. PUM, cade a terra. JUMP, con un balzo sono sul muso del compare: “Hai paura?” – “Si signore, ho paura” – “Bravo ragazzo fai bene” – “Lo sai cos’è questo?” – “no signore non lo so” – “e’ un batarang. Può essere usato come un boomerang o come arma da lancio”. Un momento. Com’è possibile che non conosca le mie armi? “Davvero non sai cosa sia un batarang ragazzo?” – “No signore. Cioè, adesso lo so” – “E la bat-mobile la conosci?” – “No signore, non la conosco” – “e cosa mi dici della bat-caverna?” – “non ne so nulla. Ma cosa vuoi da me, lasciami, ti prego!”

Lo abbandono al suo destino. Mi avvicino alla cassa. “Tenga 100 dollari per il disagio”. Afferro il mio sushi per tornare a Villa Wayne. Domani andrò a trovare Gordon al cimitero: ricorderemo i vecchi tempi.

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[email protected] / twitter@iFabbrucci
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Author: Giorgio Michelangelo

Giorgio Michelangelo Fabbrucci (Treviglio, 1980). Professionista del marketing e della comunicazione dal 2005. Resosi conto dell'epoca misera e balorda in cui vive, non riconoscendosi simile ai suoi simili, ha fondato gli Alieni Metropolitani... e ha iniziato a scrivere.

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