Come è stato notato da molti, una delle caratteristiche salienti dell’organizzazione stilistica e retorica della narrativa di Beckett, perlomeno del Beckett del periodo centrale della trilogia, è l’uso di un registro in prima persona estremamente curato, se non pignolo nel lessico, e quasi pedante nella descrizione minuta di avvenimenti e decorsi di pensieri del personaggio. Tale tono perfettamente orchestrato sintatticamente e retoricamente, da risultare in alcuni passaggi quasi una sorta di programmatico antiflusso di coscienza, punta ad ottenere un effetto di anonima razionalità della voce enunciante, privo com’è di marche stilistiche vistose, mescolanze di linguaggi o citazioni clamorose. Naturalmente, non appena il lettore si è abituato a questa, per così dire, velocità di crociera, ecco subito irrompere il rovesciamento, la catastrofe, come andava di moda dire qualche anno fa, di un salto di registro brusco, sia questo un riferimento alla realtà storica, un innalzamento di tono o al contrario un suo abbassamento fino al turpiloquio ed è superfluo aggiungere che questa è una della fonti principali della comicità beckettiana. Esempio mirabile di tale organizzazione del discorso è il Moran di Molloy, perché i caratteri stessi del personaggio forniscono a pieno lo sviluppo di una tale possibilità, ma presente in effetti in tutti i testi di quel periodo.
In realtà il cambio improvviso di registro, specie se si ha un abbassamento, non costituisce certo una specificità della comicità beckettiana e neanche di quella letteraria tout court, ciò che conta è il valore in questo caso direi euristico che esso assume. In tal senso mi sembra che proprio il Molloy offra un passaggio apparentemente molto classico nello scarto e nell’abbassamento verso la coprolalia. Siamo nelle pagine finali del romanzo e Moran sta riflettendo sul naufragio della propria missione e sulle eventuali punizioni che gli verranno comminate dal suo misterioso datore di lavoro Youdi, eppure uno strano senso di sollievo del tutto immotivato coglie Moran che si trova a enunciare o per meglio dire a scrivere, visto che si tratta di una relazione scritta, le seguenti parole:
Mais par moments il me semblait que je n’en étais plus très loin, que je m’en approchais comme la gréve de la vague qui s’enfle et blanchit, figure je dois dire peu appropriè à ma situation, qui était plutôt celle de la merde qui attend la chasse d’eau. (1)
Apparentemente si tratta di un caso quasi da manuale di perifrasi comico-oscena, in cui il registro volgare fa da rivelatore della situazione che il registro lirico tende a coprire o a edulcorare. Si tratta di un passaggio quasi folenghiano in cui l’impuro linguistico è pressoché sinonimo di autentico, ma in realtà esiste in questo passaggio un tratto irriducibile alle categorie del basso-corporale carnevalesco che rende la comicità beckettiana assai distante da quel modello, ancora riscontrabile in Joyce. Non alludo tanto al fatto che la battuta di Moran è diretta a se stesso e dunque il disvelamento è innanzi tutto un disvelamento di se stessi, di una precarietà assai poco poetica (in fondo la merda prima dello sciacquone si sente come le foglie sugli alberi d’autunno), ma al fatto che tale accenno coprolalico viene tematizzato immediatamente e inserito in quella struttura retorica di razionalità anonima di cui dicevo sopra. Infatti subito dopo Moran prosegue “Et je note ici le petit coup au coeur que j’eus une fois, chez moi, lorsqu’une mouche, volant bas au-dessus de mon cendrier, y souleva un peu de cendre, du souffle des ailes.” (2)
Il colpo al cuore avvertito da Moran alla vista della mosca è naturalmente spiegabile solo con un’associazione implicita al campo semantico della merda, ma nel contempo è un anacronismo perché solo all’ultimo Moran scopre che la sua condizione è paragonabile a quella delle feci e perciò non dovrebbe avere questo senso il suo precedente trasalimento. Inoltre quest’ultima frase, ineccepibile da un punto di vista stilistico, si ripercuote sul passaggio precedente facendo emergere e anzi rafforzando l’infrazione alla retorica del discorso e dunque aumentando gli effetti di comicità dell’intero passaggio; tuttavia tale comicità ha un valore autoscoperta di sé e anche di negazione ironica, perché la condizione di essere merda della prima frase è una metafora, che viene invece presa alla lettera nella seconda frase, che però risale a un periodo in cui Moran non si trovava ancora in quella condizione che gli ha dettato il paragone copralalico e dunque l’associazione tra le due frasi non ha consequenzialità logica immediata. Ne segue che non vi è risata liberatoria all’irruzione del corporale basso come nei classici del carnevalesco, ma una risata subito tramutata in una nuova percezione di sé niente affatto piacevole, ovvero il riso non porta al rovesciamento dell’ipocrisia sociale ma alla scoperta della propria nullità (sullo sviluppo storico di tale atteggiamento credo si siano espressi diffusamente Lukacs e Bachtin) (3), una sorta di ecce homo ateo. In questo passo beckettiano però tale effetto è ottenuto proprio con l’inserzione della battuta coprolalica in un discorso razionalizzante che tende a metabolizzare e includere anche questi scarti alla sua norma.
Se prendiamo invece uno dei grandi espressionisti novecenteschi come Gadda, possiamo vedere l’uso del corporale basso entro una cornice di continuità con Rabelais e Folengo: per esempio nel racconto San Giorgio in casa Brocchi (4), lo zio Agamennone estensore di un trattato di etica da regalare al nipote in occasione del suo diciannovesimo compleanno non può partecipare ai festeggiamenti per il nipote a causa di un’indigestione di broccoli da curarsi con l’olio di ricino. In questo racconto la materia fecale non viene neanche citata ma semplicemente allusa, eppure la sua apparizione ha una chiara funzione di disvelamento e di denuncia dell’etica dello zio Agamennone e di tutti gli zii appassionati eccessivamente di broccoli, e delle derivanti etiche, e la risata che nasce dall’indigestione di broccoli è chiaramente liberatoria. Naturalmente in Gadda le irruzioni del corporale sono molteplici e certo non tutte riconducibili a questo registro tutto sommato canonico; per esempio nel Pasticciaccio e in particolare nella scena dell’interrogatorio da parte della polizia di Ines Cionini, una delle fidanzate dell’indiziato, la narrazione è contrappuntata dalla presenza di un corporale basso, la sporcizia e il moccio nel naso, ma pietoso, anche le lacrime. L’interrogata per un misto di gelosia, paura e stupidità finisce con il tradire il suo innamorato e sente la sua desolazione, che è colta simpateticamente da Gadda per solito così spietato con i poveri:
Chinò il capo, che, ricadendo sul volto, i capelli aridi o impastati misero in ombre, e a momenti nascosero. Le sue spalle parvero affilarsi, ischeletrirsi, quasi, nei sussulti di un tacito singhiozzo. Si rasciugò il volto e il naso: con la manica. Levò il braccio: volle nascondervi il pianto, ripararvi il suo sgomento, il pudore.(5)
Nella scena, del resto molto lunga, appaiono a più riprese riferimenti al naso gocciolante e questo tratto sgradevole è però un tratto di regressione infantile e dunque di pietas per l’impreparazione, come dice esplicitamente il narratore, alla bestialità del mondo e alla solitudine in esso. Il corporalmente sgradevole è qui la secrezione della ghiandola pineale quando ha a che fare con la realtà come essa è, ma questo corporale cessa di essere comico e diventa caravaggesco: e qui direi sta la differenza irriducibile con Beckett, che non esce dalla sfera del comico ed elimina qualsiasi ridondanza affettiva o emotiva nel testo. In fondo Beckett, nella sua ricerca di parole per l’indicibile nulla della condizione dei suoi personaggi, sceglie di non allontanarsi mai da quella razionalità d’occidente che pure prende furiosamente in giro attraverso i complicati calcoli mentali su oggetti banali dei suoi personaggi senzatetto sciancati o sdentati.
Un’altra modalità del discorso che ricorre alla coprolalia e al turpiloquio è la modalità della rabbia e dell’invettiva, assai testimoniata per esempio nello stesso Gadda, ma che non ricorre quasi in mai in Beckett, perché il narratore beckettiano non rappresenta la propria rabbia, ma la descrive asetticamente. Non che manchino in Beckett, naturalmente, episodi in cui la rabbia del personaggio si esprime in maniera oscena, ma questi non sono mai il registro di base del discorso, come può accadere in Gadda o in Céline. Proprio quest’ultimo offre un esempio chiaro di quello che è una retorica generale in Guignol’s band I. Céline parla della vita per così dire in generale:
“On s’est bien marré quelques fois, faut ?tre juste, m?me avec la merde, mais en proie d’inquiétudes que les vacheries recommenceraient.”(6)
In questo passo il riferimento coprolalico del tutto ridondante costituisce la spia dell’agitazione e della furia che caratterizza l’enunciato celiniano. Niente del genere in Beckett. Si può trovare magari la battuta rabbiosa ma il tono complessivo è quello che descrivevo sopra. In tal senso non è un caso che in un racconto come La fin, scritto nello stesso periodo di Molloy, il protagonista, un barbone anonimo, ricorra al linguaggio coprolalico prevalentemente nella parte finale del racconto, dove non c’è rabbia per la fine né risata liberatoria, ma il comico non è mai nello scarto linguistico, ma nella situazione, nella fattispecie nel riadattamento di un canotto abbandonato lungo il fiume in uno spazio altrettanto abbandonato e nelle complicate operazioni per defecare fuori da questo senza però lasciarlo, descritte ovviamente con minuzia da manuale per le istruzioni. Ma, terminata la descrizione, il protagonista commenta l’azione: “Se tailler une rouyaume, au milieu de la merde universelle, puis chier dessous, ça c’était bien de moi.” (7)
Ancora una volta il brusco abbassamento all’interno della frase, che è peraltro nel suo inizio un innalzamento di stile, demistifica il personaggio stesso nella sua condizione, prima ancora di essere una feroce bestemmia al mondo. In questa battuta ciò che conta è che il protagonista vanifica il senso delle sue azioni precedenti, il lavoro di recupero del canotto in mezzo a un immondezzaio, arrivando ancora una volta a far apparire la vera condizione umana, ma nell’emergere dell’autentico non vi è la risata di Gargantua.
A giudicare da questi passaggi la materia fecale è per Beckett il prodotto dell’uomo in tutti i sensi e questo viene fatto emergere senza rabbia, ma anche senza pietà o allegria, come in una sorta di constatazione amichevole con la logica del mondo e del lettore. Beckett domina in maniera virtuosistica ovviamente in questi due passaggi la tecnica letteraria di origine espressionista dello scarto di linguaggio, ma manca a differenza dei classici dell’espressionismo la presenza di quella tensione etica per cui l’emergere dell’autentico attraverso l’impuro linguistico è un modo comunque della giustizia e della verità umane che non sono solo la sua nullità.
Moran, il personaggio beckettiano che ha più problemi in comune con il Beckett scrittore, dopo aver chiesto energicamente che il figlio malato, o sedicente tale, si presenti a tavola dice così: “La colère me poussait quelque-fois à de légers écarts de language. Je ne pouvais les regretter. Il me semblait que tout language est un écart de language.” (8)
Ecco che forse Moran, o Beckett stesso, ci offre la chiave per interpretare la sua coprolalia. Se tutto il linguaggio è uno scarto di linguaggio, allora lo scarto per eccellenza, il basso corporale, non è più un garante di rottura della falsità del letterario o di qualsiasi ideologia, ma diventa una delle vie percorribili a volte per approssimarsi a ciò da cui scarta. Adorno, nel suo saggio su Finale di partita(9), dice che dell’incommensurabilità di ogni esperienza si può parlare solo eufemisticamente, proprio come in Germania si parla dello sterminio degli ebrei. In qualche modo è così che la pensa Moran e non crede pertanto che nessun rovesciamento del linguaggio rovesci la realtà, come lo credono Céline e Gadda, la cui furia sfigura ma coglie la realtà, e possiamo al massimo giocare sulla nostra vacuità e costruire i nostri reami su cui poi cagare sopra. Allora, in questa prospettiva, il linguaggio coprolalico cessa di essere un polo di una dialettica interna alla lingua e alla società, una dialettica che vede nei registri alti e letterari del discorso la mistificazione di una verità e negli scarti alla norma l’emersione di una verità scomoda o dolorosa. In Beckett invece il linguaggio coprolalico diventa un bacino di metafore che per la sua forza di rottura, derivante ma ormai indipendente da quel tipo di dialettica che ho appena definito, concorre insieme ad altri procedimenti retorici e letterari a un tentativo di descrivere l’incommensurabilità dell’esperienza alla quale si riferisce Adorno. Ovviamente un tale tipo di tentativo, per sua stessa natura, non può approdare a nessuna verità stabile.
E’ perfino superfluo aggiungere che quando si dice che ogni linguaggio è uno scarto di linguaggio si è fuori dall’espressionismo, ma per dirlo bisogna averlo attraversato.
NOTE AL TESTO
1: S.Beckett Molloy, Paris, Minuit, 1994, p.221
2: ibidem
3: cfr. M.Bachtin trad.it introduzione in L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Torino, Einaudi, 1979
4: si trova nella raccolta Accoppiamenti giudiziosi, Milano, Garzanti, 2001
5: C.E. Gadda Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Milano, Garzanti, 1997 p.157
6: Céline Guignol’s band I et II, Paris, Gallimard, 1998, p.33
7: S.Beckett, Nouvelles et Textes pour rien, Paris, Minuit, 1991, p.109
8: S. Beckett Molloy, ed.cit., p.158
9: cfr.T.W.Adorno Versuch, das Endspiel zu verstehen in Noten zur Literatur, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1974
Di Giorgio Mascitelli – Da “Testo a fronte”, n.35, dicembre 2006