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Poste 111

Racconto di Giorgio Michelangelo Fabbrucci

 

Come devo sentirmi? Oggi è una giornata anonima, divisa tra le piccole e le grandi tensioni di un minuscolo borghese. Poco fa mi ha chiamato un amico; un ragazzo molto impegnato nel sociale, che ho frequentato per qualche tempo, mentre cercavo di dare senso alla mia vita combattendo senza successo i mali del mondo. Mi ha detto: “non puoi sapere quanto ti stimo; mi spiace che tu non abbia più tempo di impegnarti; spero di rivederti presto, quando avrai risolto i tuoi problemi”. Avrei voluto dirgli che anche io lo stimo molto; sarei stato sincero. Al contempo avrei desiderato spiegargli che i miei problemi sono anche i suoi; che se vuoi seguire una famiglia e un lavoro come Dio comanda, non puoi spendere il tuo tempo in azioni senza risultati chiari ed immediati; che bisogna pagare le tasse, le bollette, i fornitori, l’assicurazione, la spesa, le ferie, l’affitto, la benzina e ogni tanto qualche libro. Forse avrei fatto bene a dirglielo. Non gli ho detto nulla, dovevo andare alle poste, a ritirare su delega, due buste. Per essere certificato come delegato doc ho dovuto fotocopiare le carte di identità dei due destinatari. Le ho stampate in modalità “risparmio inchiostro”. Ho anche due cedolini, di colori diversi: uno giallo e uno verde. Quello verde, che a ben guardare è verde veneziano, viene solitamente utilizzato per gli atti giudiziari. Probabilmente si tratta di austerità: avendo finito i cedolini di consegna gialli ne hanno utilizzato uno verde, tracciando una linea storta sulla scritta “atto giudiziario”, come a dire: guarda che non è quello che sembra, semplicemente abbiamo finito la carta. Non sono affatto curioso. Devo solo adempiere nel minor tempo possibile ad una delle tante scomodità quotidiane. Preferirei essere in un bar della Versilia, magari in primavera; bere un rum ascoltando Hotel California.
Entro alle poste. Guardo subito il pavimento. Una volta ho scritto una lettera al direttore del servizio postale chiedendogli per quale ragione il pavimento grigio dei loro locali e sempre un po’ più grigio degli altri ambienti adibiti al pubblico servizio. Non mi ha risposto. Per me quella missiva è stato un atto dovuto. Ho sentito l’urgenza morale di comunicare il mio disagio a un qualche super responsabile di fantozziana memoria. Chissà cosa avrà provato, leggendo l’umile sfogo di un folle, che si sente un po’ svizzero, seppur a tratti tosco-californiano.
La prima volta non si scorda mai. Ricordo quando ho schiacciato il bottone: la scatoletta gialla che vomita lo pseudo scontrino ultra light, quasi carta velina, con stampato il numero d’attesa. Mi diede un’idea di super efficienza meccanizzata. Una specie di polluzione futurista, esaltante informatizzazione dei processi sociali; poco dopo mi è venuto in mente “Metropolis”di Fritz Lang ed ho smesso di sorridere. Questa volta mi tocca U107. Mi piace U107. In fondo poteva capitarmi U111, tutto sommato una ripetizione noiosa e un po’ sfigata. Se avessi dovuto pagare una bolletta sarei stato A907 oppure B701. Mi sento improvvisamente illuminato da una deduzione geniale. L’ordine alfabetico a sostegno delle priorità di una complesso sistema d’organizzazione sociale. Se ritirare un pacco fosse stato più importante del pagamento di un debito, sarei stato quanto meno C107. Invece no. All’opposto, ritirare un pacco è stato codificato con una sfigatissima lettera dell’alfabeto. A ben pensarci anche i nomi che iniziano per U hanno qualcosa di grottesco: chiamereste mai vostro figlio Ugo? Al massimo un cane, trovato ferito sull’argine di una strada.
La signora al mio fianco, in attesa che la magic box delle poste italiane vomiti la sua sentenza alfanumerica, mi chiede: “Lei è U107? No perché io sono U108” – “Signora si, sono U107; lei deve ritirare un pacco?” – “No. Devo ritirare qualcosa… allora è lei prima di me?” – “Si. Io sono prima di lei. Appena ho finito, sarà il suo turno” – “Bene”. Se non lo stessi vivendo non potrei crederci; nondimeno me lo ha appena chiesto con amletico appeal: sei o non sei U107; Dica tutta la verità, nient’altro che la verità, dica lo giuro; ha il diritto di non parlare U107, a tutela dei suoi diritti e del pacifico svolgimento della fila. La signora ha sui cinquant’anni; forse qualcosa meno, portati malissimo. Il suo colore naturale dovrebbe essere il castano sbiadito, una foglia di grano annaspa nel fango. La tinta rossa le conferisce un regale aspetto da battona. Regale perché occhio e croce svolge l’antica professione da almeno due decenni. Oppure è una madre di famiglia, che fa pulizie in case che vanno dai 100 ai 150 metri quadri per tirare a campare. Lo sguardo: pozzanghera con siringa galleggiante. La pelliccia di ecopelle ed i collant damascati la dovrebbero rendere un personaggio felliniano. Invece no. E’ uguale a tutti gli altri ospiti del purgatorio burocratico. Forse le somiglio: un battone con le scarpe in ecopelle damascate. Forse non sono così diverso. Pensiero troppo devastante. Devo camminare, in fondo siamo solo ad U96, e la priorità è di Mr.A, Mr.C e Mrs.B.
Mi muovo. Pesce rosso in ampolla. Cosa scopro? Una libreria tutta gialla, la libreria delle poste. Sagaci. Compri un libro e leggi per una buona mezz’ora; almeno l’attesa risulta meno fastidiosa e ti porti a casa un chicco di cultura in più. Che sia stato veramente questo il nobile intendimento del responsabile marketing? Se così fosse ha fallito, perché nessuno degli ospiti stringe tra le grinfie un qualsivoglia volume. Forse qualcosa li distrae. Forse è tutta colpa dell’addetto alle bollette, che da dietro il vetro cerca di carpire l’attenzione di una bambina gridando: “Vieni qui patatina! Bambolina! Patatina!”. Sembra Jim Morrison prima i morire nella vasca da bagno. Di certo è ubriaco, o forse tutto è normale ed io sono l’unico alieno. Devo estraniarmi. Se anche raggiungessi un livello di consapevolezza superiore, uscendo dal mio corpo ed entrando in uno stato di trance, U108 userebbe di certo il garbo di ridestarmi, per sveltire il processo di coda. I libri sono ordinati secondo una classifica delle vendite. Riassumendo: Cucina, Cantanti in fase “de profundis”, Vampiri e Papi. Vorrei tanto chiedermi il perché. Il perché della cucina accostata ai Santi Padri e soprattutto alle sanguisughe di transilvania. Lascio perdere. Il diaframma del mio sguardo si restringe per mettere a fuoco un testo voluminoso, che rimane in equilibrio, sulla stretta asticella di metallo che dovrebbe sorreggerne la quarta di copertina. Lui è lì. Tutto solo, in bilico sull’abisso delle retro mai spolverato. Tutti i suoi compagni si mostrano tronfi al pubblico assente, con le loro copertine lucide e cartonate. Cosa avrà subito quel testo, per tentare il suicidio alle poste centrali di una cittadina di provincia, non voglio immaginarlo. Forse è rimasto traumatizzato da folli critiche a lui contemporanee; oppure non è stato accettato al momento del lancio; e’ nauseato dalla classifica di cui è dirimpettaio o tutti credono di conoscerlo, anche se non l’hanno mai letto? Decido di salvarlo. Interpreto il mio piccolo gesto (prenderlo in mano e voltarlo) come un balzo atletico, pieno di eroismo: pompiere che si lancia alla finestra, per afferrar la caviglia d’un tuffatore d’asfalti. E’ Moby Dick. Un disegno in bianco e nero, sulla copertina in edizione economica stropicciata, ritrae una ridente balena ingollante un mercantile. Ti ho salvato. Sono convinto che lassù il tuo papà sia contento. Non ti farà del male nessuno. Anche qua dentro, verrai apprezzato.
L’ambiente circostante si trasmuta. Primavera di lettere. Cuccagna di bollette. Ho salvato un augusto pezzo di storia da una fine indecorosa… mi sento felice. Ora posso anche sedermi in pace con me stesso ed attendere con serenità la trionfante chiamata di U107, salutando con mano oscillante, i “manhatti” in attesa.
Il signor “sono oscenamente grasso ed ho una pettinatura fuori moda, con riga al fianco ed una giacca color cachi che financo mio nonno avrebbe nutrito qualche perplessità nell’indossarla” mi è al fianco. Ovviamente non con contatto fisico, perché nei luoghi d’attesa, come sa chi viaggia spesso in metropolitana, si cerca sempre di posarsi ad almeno un seggiolino di distanza gli uni dagli altri. Alla base dell’etereo divisorio della nostra supposta sterilità, sulla seduta giallo canarino, giacciono prive di vita alcune pagine sventrate della gazzetta dello sport. Lui mi guarda. Non direttamente. Con la coda dell’occhio. Pesce su bancone di supermercato. Forse vorrebbe sapere cosa sto leggendo. Oppure mi ha visto comprare il testo, ed anche sedermi serafico a sfogliar le prime pagine con religioso appagamento. Chissà cosa pensa Mr. Ball Fish ? Vorrei chiederglielo…

“Mi scusi Mr. Ball Fish? E’ forse interessato al mio libro, oppure è interessato alla mia persona?” – “Mi scusi, non volevo darle noia, ma sa, quando si è in attesa si cercano occasioni di distrazione” – “Beh, ha ragione e le assicuro che il suo sguardo non mi ha affatto infastidito; tutt’altro. Semmai è l’occasione di scambiare due parole con un altro essere umano, costretto come me, ad onorare i riti della complessità sociale” – “Ha proprio ragione, siamo tutti nella stessa barca e spesso mentiamo a noi stessi, pensando che il prossimo voglia solo fregarci. Invece no, spesso siamo tutti vittime, che in silenzio vivono un mondo che non li rappresenta mai fino in fondo” – “Lo sa cosa le dico Mr. Ball Fish, sono in profondo accordo con le sue parole, e ciò che dice mi consta. L’umanità si organizza per non odiarsi; pensi cosa potrebbe accadere se si impegnasse ad amarsi!?” – “Sarebbe bello. Purtroppo dobbiamo fare i conti con la realtà e non con i desideri. Tornando al reale, che cosa sta leggendo, se vuole usare la gentilezza di dirmelo?” – “Sto leggendo la storia di un suo simile, la balena. In realtà non tratta la storia di un grande cetaceo; solo in parte. Questo testo è molto di più: è una sferzata di genialità, regalata da un uomo all’intera umanità” – “Detto così risulta tutto molto affascinante” – “Sa cosa le dico? Glielo regalo. Però deve promettermi che lo leggerà. Che lo leggerà con passione, perché glielo ha regalato uno sconosciuto con il cuore. Sono sicuro le piacerà; un po’ mi coccolo nell’idea che il mio volto non venga cancellato dai suoi ricordi. Anche se non sa chi sono, è bello pensare che ho lasciato il segno nella sua esistenza. Che il mio respiro su queste pagine potrebbe diventare il suo. Lo tenga…” – “no. Non posso. Lei è troppo gentile…” – “lo accetti Ball Fish. Ora le lascio questo libro e me ne vado. Le dirò di più, non ritiro neppure le lettere ignote che mi attendono al di là del vetro. In fondo perché spendere il mio tempo, senza che nessuno abbia avuto il garbo di comunicarmi quali missive mi attendano, di cosa trattino e perché siano così importanti. In fondo perché sono obbligato ad inginocchiarmi alle ignote priorità di un’organizzazione?” – “Ha ragione. Me ne vado via anch’io ed accetto con gratitudine il suo dono”.
Io e Mr. Ball Fish non ci siamo alzati. Non ci siamo parlati. Abbiamo atteso il nostro turno, diligentemente. Io impegnato nella lettura. Lui a sbirciare, come se mi stesse entrando di soppiatto nel retto. Forse era lui U111.

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[email protected] / twitter@iFabbrucci
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Author: Giorgio Michelangelo

Giorgio Michelangelo Fabbrucci (Treviglio, 1980). Professionista del marketing e della comunicazione dal 2005. Resosi conto dell'epoca misera e balorda in cui vive, non riconoscendosi simile ai suoi simili, ha fondato gli Alieni Metropolitani... e ha iniziato a scrivere.

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