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La notizia non è confermata ma pare che Louis Armstrong (quel Louis Armstrong, quella la tromba e quelle guance gonfie di puro genio…) alla domanda Cos’è il jazz? rispose: Amico, se lo devi chiedere, non lo saprai mai.

Sento il dovere di premettere che non ho nulla contro l’amico Marco Arcieri, che con i suoi ritratti letterari (non posso limitarmi a definirli semplici recensioni) spesso accompagna i lettori nel meraviglioso quanto complesso mondo della letteratura come pochi, in Italia, sono in grado di fare. Il suo saggio su William Faulkner, di recente pubblicazione, ne è solo un esempio.

Rispetto a Infinite Jest di David Foster Wallace ritengo tuttavia abbia commesso due imperdonabili errori che si riflettono, inevitabilmente, sulla bontà del giudizio finale che ne viene dato.

Il primo consiste nel non aver letto l’opera. Salterà sulla sedia ma non potrà che ammettere che esiste una verità: leggere-male, o leggere-in-fretta, equivale a non-leggere. La letteratura è un volo estremo che non ammette terze vie. Dommage.

E di questa deficienza, ahimè, non si può certo dar colpa allo Scrittore (come Arcieri tenta, neanche troppo velatamente, di fare con Wallace) giacché quello di leggere è precisamente ed esclusivamente compito del Lettore (il minimo, sostanzialmente, che gli venga richiesto). Senza andar troppo per le lunghe, un lettore che ha letto di fretta o ha letto male non può dire di aver letto l’opera. Figuriamoci se può scrivere una recensione.

Ma andiamo oltre.

Quanto appena detto varrebbe, di per sé, a chiudere qui e ora ogni polemica generata dalla critica di Infinite Jest by Marco Arcieri. Tuttavia, la-stima-infinita-e-per-nulla-beffarda che da anni nutro per il citato M.A. mi impone di proseguire ed affrontare quello che è stato il suo secondo imperdonabile errore, che ha molto a che vedere con la citazione di Armstrong (forse leggendaria, ma comunque ricca di senso) con cui ho aperto questa breve riflessione.

L’errore consiste, rispetto all’opera de quo, nel non averla “sentita” prima di giudicarla. Un po’ come chi, forse persino per troppa cultura musicale, non capisce e non apprezza il jazz: o “lo senti” o “non lo senti”. E’ un problema di percezione. Questo è il punto.

Da Madame Psychosis a John Wayne, da Don Gately a Povero Tony, passando per tutta la famiglia Incandenza. Mese dopo mese (perché, si sa, le 1434 pagine di cui si compone non si esauriscono in poche settimane) i personaggi di I.J. e le loro storie ti raccontano tutto di te, quasi che siano loro a volerti leggere, e non il contrario.

Non c’è nessun ipotetico terrificante futuro in Infinite Jest. Quello che c’è esiste già, nel presente, fuori e dentro di noi.

Debbo ritenere che l’eccesso di sovrastrutture letterarie non giovi alla comprensione del testo. Ne è conferma il punto di vista del grande critico letterario Harold Bloom (sulla cui curiosa somiglianza con l’amico recensore non voglio, per ora, soffermarmi) che a proposito di David Foster Wallace dichiarò: “Molto dotato, ma ogni suo libro era incompleto”.

Questo è corretto, secondo me. Ma se fosse proprio questa la sua grandezza? Cosa ci trovate di completo e strutturato nel mondo in cui vivete?

Se glielo permetterete, Infinite Jest vi colpirà dritto in pancia, con buona pace dell’Accademia che, un po’ perplessa, non può che prendere atto di un fenomeno ormai conclamato: l’opera “arriva” e, malgrado la sua notevole complessità, raggiunge persino chi non si sia pregiato di leggere il Tondelli! La fama di Shakespeare, del resto, non iniziò forse nel popolare Globe Theatre? (La comparazione venga presa per quello che è, please, uno mero spunto di riflessione rivolto a chi, per primo, ci chiede di riflettere…).

Cos’è Infinite Jest, in conclusione? Un romanzo o un non-romanzo? Un capolavoro o una burla?

Irresistibile la tentazione di rispondere: amico Arcieri, se lo devi chiedere, non lo saprai mai.

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contrappunto di Raffaella Foresti