“Rose e cenere”: gli sbandati esistenziali di James Purdy, “genio americano”
ROMA (14 giugno) – Gore Vidal lo ha definito «un autentico genio americano» ma, nonostante le sue venti opere – fra romanzi, raccolte di racconti e poesie, commedie – James Purdy (1914-2009) è poco conosciuto in Italia. Per fortuna ora è stato ripubblicato il capolavoro – scabroso e tragico – di questo grande ribelle della letteratura statunitense, uscito nel 1967: Rose e cenere (Baldini Castoldi e Dalai, 211 pagine, 18,50 euro, traduzione di Attilio Veraldi). Chicago degli anni Trenta, con la crisi economica, è appena il fondale di questo romanzo dalla costruzione teatrale, denso di dialoghi ironici, aspri, intrisi di slang. I vari personaggi si muovono quasi sempre in interni, segnati da una fatalità crudele da tragedia classica.
Il palcoscenico di gran parte della storia è la casa del trentenne Eustace detto Ace che, con «l’ozio e lo strazio della disoccupazione», si è consacrato a scrivere un poema su vecchi fogli di giornale. Lui è l’osservatore, il cantore e insieme il burattinaio delle vite che si ritrovano nel suo appartamento e di cui si nutre la sua arte: «qui c’è lo scarico dei sogni falliti». La moglie Carla ritorna dopo averlo tradito e deve rispettare le nuove regole del gioco: essere soltanto qualcuno che lavora e porta soldi. Infatti Ace è affascinato da Amos, diciassettenne di straordinaria bellezza, che gli dà lezioni di greco antico. Invece il ragazzo è innamorato del suo affittacamere Daniel, il quale però respinge la propria tendenza omosessuale e si arruola nell’esercito per sfuggirgli. Così Amos si concede alla passione di Reuben, miliardario alcolizzato da cui è attratta la pittrice Maureen.
Sono tutti sbandati, emblemi di un paese smarrito e disintegrato per la distruzione dell’american dream, però il loro degrado non è tanto sociale quanto esistenziale. Non è solo la Grande Depressione a travolgere i loro destini, ma qualcosa di più feroce e ineluttabile: la vita.
L’amore, meglio la ricerca spasmodica di un amore che possa difendere dallo squallore, è il vero centro della narrazione: un fulcro di violenze fisiche e psicologiche, un groviglio di ossessioni perverse, di drammatici traumi, di sofferenze. Ognuno paga la colpa di una mancanza di identità e di ruolo nella propria esistenza. E anche l’omosessualità diventa come uno specchio deformante in cui si riflette l’incapacità di stabilire e vivere rapporti d’amore. Alla fine gli incubi di alcuni saranno distrutti dalla morte mentre gli altri si ricompongono in coppie, in un apparente equilibrio. Ma sono dei sopravvissuti alla catastrofe e all’autodistruzione, in una catarsi grottesca, precaria. Forse l’unica possibile.
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di Annabella d’Avino, da “Il Messagero”