Enzo Siciliano, in un articolo su “l’Unità”, ha sostenuto che dopo la morte di intellettuali come Volponi, Pasolini, Calvino, fosse venuta meno la figura dell’intellettuale “complessivo”, colui che aveva un’autorevolezza, e che poteva permettersi di parlare in nome dell’universale. Secondo Siciliano, però, negli ultimi tempi, questa figura di intellettuale complessivo, attaccato alla realtà, starebbe ritornando, con la differenza che ora parte da un’esperienza personale, da uno “shock” narrato. Cosa ne pensi? Ti riconosci in questa figura?
L’ideale di intellettuale che esprime Siciliano è assolutamente rispettabile, però non mi riconosco in esso, anche per ragioni biografiche: la mia esistenza non è mai stata quella dell’intellettuale specializzato. La vita mi ha portato in zone e in dimensioni diverse. Sono stato in seminario, non ho fatto l’università, sono stato militante rivoluzionario e ho svolto anche lavori di fatica. E, anche dopo, ho dovuto muovermi sotto terra per molti anni. Io credo che quella di Siciliano sia nostalgia per una certa figura di intellettuale che aveva una grossa audience nei media, tra i gruppi culturali e nei movimenti politici e sociali, una figura di intellettuale che aveva la percezione di contare in una cerchia di persone e di arrivare anche al grande pubblico attraverso l’accoglienza e l’amplificazione dei media. Una figura molto emblematica di questo tipo di intellettuale è Sartre, che però – proprio perché così all’interno di questi meccanismi – è diventato via via una sorta di marionetta, uno che doveva sempre stare sulla cresta dell’onda. Non credo che sia una grave perdita il fatto che sia tramontata questa figura di intellettuale in fondo epigonale. In questo momento siamo di fronte a delle sfide talmente grandi e immediate, non solo nel nostro Paese ma anche nel nostro pianeta, che la sola dimensione culturale, storica e sociologica è oggi insufficiente.
A cosa ti riferisci?
Siamo di fronte a una situazione di limite della nostra specie, a qualcosa che riguarda anche la vita dell’intero pianeta, che secondo la maggior parte degli scienziati non è molto lontano dal collasso. Oggi occorre uno sguardo più complessivo e anche più verticale, occorre una rigenerazione più profonda, che coinvolga anche le nostre strutture di giudizio, l’organizzazione della vita umana, il sentimento, le pulsioni, il sogno, il bios, la prefigurazione. Non solo la dimensione orizzontale della storia o della sociologia. Oggi chi ha il dominio sul mondo continua a ragionare e ad agire all’interno di logiche economicistiche chiuse e suicide, nonostante tutto questo stia conducendo la nostra specie e il suo rapporto con il nostro pianeta in un vicolo cieco.
Cosa è cambiato dai tempi di Pasolini e Calvino? Nel “Vulcano” tu prendi le distanze da entrambi…
Certo, tra i due preferisco il primo. Pasolini è una figura importante, è una freccia. Per noi del “Primo amore” è una figura di riferimento formidabile. Le mie riserve su Pasolini erano e sono riferite a un certo tipo di figura di “intellettuale chierico” novecentesco, di cui persino lui partecipava. Non mi entusiasma il Pasolini sociologico, quello del “Corriere della sera”, per intenderci, che è poi esattamente quello che è maggiormente passato, con il quale tutti sembrano andare a nozze. Il miglior Pasolini è a mio parere il primo e l’ultimo, quello delle prime raccolte di poesie e di Atti impuri e quello della Divina mimesis e di Petrolio, nel cinema quello di Accattone e del Vangelo e poi quello di Salò-Sade. Qui anche la lotta politica e sociale entra in una dimensione più profonda e più vasta, che si ricongiunge al mito, che sta dentro un contenitore più grande. Dopo la Resistenza (che io, beninteso, considero la più bella e la più onorevole pagina della nostra storia moderna) tutta una serie di intellettuali e di scrittori si sono accontentati di stare dentro questo grande canale di trasmissione che era l’appartenenza culturale e politica a quelle forze che erano uscite vincitrici. Tutto questo ha dato loro una grande possibilità di comunicazione con larghe fasce di lettori e di pubblico, ma ha impedito di vedere – anche ideologicamente – ciò che vi era di attardato, di superficiale e gregario in quella concezione storicistica e progressiva della vita e del mondo, che non a caso si è dimostrata alla fine così fragile di fronte alle nuove forze e ai nuovi schiacciasassi economici, politici, militari e mediatici che hanno preso poi il sopravvento.
Secondo te cosa deve fare l’intellettuale, oggi, in Italia?
Io non porrei l’enfasi su questo termine, che per me oggi ha poco senso. Questa figura è stata travolta e la soluzione non è a mio parere ripristinarne le spoglie. Non credo ci debba essere una cesura tra attività letteraria, sapere scientifico e habitat naturale e sociale. Io almeno vivo così la mia vita, anche quella di scrittore. Ho scritto molti libri di invenzione e visione, come Gli esordi e Canti del caos e altri di combattimento più ravvicinato, come Lettere a nessuno e Zingari di merda. Ma non li vedo come cose diverse e separate. L’onda che li trasporta è la stessa.
Oggi non c’è soltanto bisogno di un certo tipo di ragionamenti e pensieri, c’è bisogno anche di allargare e sfondare, di far capire che le nostre possibilità sono enormemente più vaste di come ci hanno portato a pensare. La figura che ho in mente è una figura che opera non solo nel campo del pensiero e dell’abilità linguistica e artistica separata, ma che sta anche dentro una tragedia e un sogno. Occorre stare dentro l’impossibile, l’incontrollabile. La letteratura secondo me deve svegliare anche le nostre forze atrofizzate e dormienti. Cosa che non può fare più la politica, che ormai sta solo su un terreno autoreferenziale e tatticistico o raschia il fondo del bidone della grettezza e della cattiveria umana. Non lo può più fare la macchina religiosa secolare e istituzionale, che esibisce un’autorità vuota e colonizza il bisogno di trascendenza degli uomini. Certe volte, in certe epoche intossicate e bloccate, quando niente riusciva a fare passaggio, è stato proprio ciò che si muoveva nell’incontrollabile dimensione dell’immaginazione, della parola, del suono a creare spostamento profondo e a fare passaggio. Io per lo meno, come Don Chisciotte, ho questo sogno.
Come ha fatto Saviano?
Ho stima e rispetto per Saviano, che ho avuto la fortuna di conoscere prima, quando poteva andare ancora a mangiare una pizza con gli amici. Gli voglio bene, penso che abbia fatto una cosa grande. È curioso vedere cosa è successo dopo l’uscita del suo libro. Molti hanno capito davvero cosa è riuscito a dire e come stanno veramente le cose. Ma c’è stato anche chi ha fatto finta di capire che la camorra è una sorta di entità maligna separata, un mondo schifoso con cui non abbiamo niente a che fare. E ci sono anche persone che elogiano Saviano ma che poi, a tutti i livelli – anche a livello culturale – si muovono all’interno delle stesse logiche camorristiche che lui ha portato così allo scoperto. Se c’è una cosa forte nel suo libro e che lui è riuscito a mostrare è come queste logiche siano assolutamente intrinseche al tipo di società e al tipo di mondo in cui viviamo: sono il lubrificante dell’economia e di tante altre cose. Per cui, vedere alcuni politici e anche uomini di cultura riempirsi la bocca con il suo nome non so se mi fa più ridere o più incazzare. Saviano è riuscito a spalancare una porta, a creare uno shock. Anche se la sua non è l’unica strada, e non bisogna farne discendere normative imprigionanti e unidimensionali e un modello unico di cosa gli scrittori dovrebbero scrivere e di che cosa è la realtà.
E di shock tu ne crei. Anche solo attraverso le descrizioni, la dicibilità immediata, come l’ha definita Tiziano Scarpa; vale a dire quell’attaccamento al particolare, soprattutto fisico, che crea un tramite diretto nella rappresentazione del reale. Condividi questa idea?
Quando scrivo va in subbuglio la mia stessa condizione psicofisica, non sono soltanto dentro una tensione culturale o sociale. È una forza anteriore, quella di cui parlavo prima, che riemerge. Mi succede nelle opere narrative come in quelle teatrali. In Duetto, ad esempio, i protagonisti sono Maria Callas e la tenia che c’è dentro di lei. La tenia si innamora della musica e del canto della Callas, e anche lei, che vive nel suo intestino e in mezzo alle feci, impara a poco a poco a cantare, finché non sporge addirittura dalla bocca del corpo che la ospita e non si mette a cantare sui palcoscenici dei maggiori teatri del mondo. È quella lo forza che emerge. Improvvisamente si scatena una lotta canora tra la tenia e la Callas. La potenza nasce da dove non ci si aspetta che possa nascere. È una presa di coscienza (ma anche qualcosa di più) da parte della tenia che innerva e oltrepassa lo stesso canto in cui è imprigionata e proiettata. A me pare che questa forza possa provenire dalle opere e dalle vite delle persone in tensione e in prefigurazione. Non può provenire solo -e tanto più adesso- dall’informazione, dal gioco gregario e dal ricalco.
In “Fuoco nero” c’è un’invettiva proprio contro l’informazione,. Qualche tempo fa alla Casa della poesia c’è stato un incontro intitolato “La fabbrica della cattiveria”, un titolo di uno dei numeri della rivista “Il primo amore”, in riferimento alla capacità dell’informazione di creare dei demoni. Sembra di ascoltare Pasolini e altri filosofi: ogni sistema ha bisogno di un cancro per potersi rafforzare. È questo che sta succedendo?
È ciò che è successo e che sta succedendo con gli zingari, ad esempio. Sono i più deboli, non hanno uno Stato alle spalle. Insomma, sono la figura perfetta per svolgere un ruolo sacrificale in una società dominata da logiche spaventose, che già abbiamo visto in azione in passato. Sono “indifendibili”, “impresentabili”. Il libro che ho scritto dopo un viaggio in Romania è una radicale difesa degli zingari, anche se (e proprio perché) non è agiografico e manicheo. Molti – anche tra le migliori menti del recente passato – non sono riusciti a immaginare la situazione che si sta delineando ora. Pasolini, ad esempio, era convinto che si andasse verso una universale omologazione, verso una generale sottocultura consumistica piccolo borghese fascistoide. Invece non c’è solo questo. Non immaginava che ci saremmo trovati di fronte i miserabili di Victor Hugo, venuti in mezzo a noi da tutti gli angoli del pianeta. L’anello di miseria e le baracche che vedeva attorno a Roma, e di cui immaginava con rammarico la futura scomparsa, non sono spariti, si sono anzi moltiplicati.
Ma quanta voglia c’è nel pubblico di sentire la verità secondo te? O quanto il pubblico si accontenta di una vita immaginaria?
A molti fa comodo vivere in un mondo finto. Molti sono consapevoli dell’ingannevolezza di molte informazioni che riceviamo dal sistema in cui siamo immersi. Sono molto gravi le conseguenze di una cattiva e depistante informazione. Ma noi abbiamo anche una furia dentro. Quella che cercano di sopirti. Mettere le persone di fronte alla situazione reale che stiamo vivendo, sul piano planetario e di specie, significherebbe sconvolgere ogni cosa, le priorità umane, la macchina economica, politica, militare, rendersi conto che ogni cosa è da ripensare e da reinventare. Chi è coinvolto in prima persona in questo brutto gioco e ne trae ricchezza, potere e status non è certo incline a metterlo in discussione.
Delinei uno scenario piuttosto negativo. Un po’ come in “Fuoco nero”: alla fine il continuo scontro tra luce e buio, nascita e morte, finisce in una sorta di apocalisse, si annullano l’un l’altro. È un bel messaggio di pessimismo, o sbaglio?
Io spero sempre che si riesca a rovesciare questa situazione. La mia natura è quella del combattente. E quindi combatto, e a volte dispero, naturalmente. Ma non si combattono solo le battaglie che si è sicuri di vincere, si combattono tutte le battaglie che ci sembrano giuste. L’importante è rendersi conto che siamo dentro questa battaglia. Ma bisogna dirla tutta, cazzo, la verità! Solo così puoi sperare di poter combattere ciò che di orribile realmente succede e di evitare di fare delle mosse di fronte a uno specchio
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Pubblicata sull’Aleph numero 11, nel novembre del 2009
2 comments
luigi says:
mag 18, 2011
RispondiLa prosa di Antonio moresco e’ quanto di più’ bello e puro che esprime la lettaratura italiana contemporanea. Moresco non si limita a raccontare storie, come un narratore qualsiasi. Moresco fa scendere i suoi personaggi negli abissi dell’anima, dove tutto e’ nero e spesso non v’e’ speranza. Gli incendiati, l’ultimo romanzo di moresco e’ un autentico capolavoro. Costola de i Canti del caos, scritto di getto, e’ la testimonianza di quanto antonio sia in grado di far fuoriuscire da se stesso una storia terribile e magnifica, di sapore metafisico e a tratti borgesiano. Lo consiglio a tutti gli amici del sito.
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nov 20, 2013
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