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ELOGIO DI LANDOLFI SCRITTORE INUTILE ‘IL FASCINO DELLA SUA PROSA SGARBATA’

Non ho mai conosciuto Tommaso Landolfi; ben pochi lo hanno conosciuto; oscuro ricordo di una sua fotografia – o mi sbaglio? I suoi libri recavano la bandella bianca, senza notizie sull’ autore o imbonimenti per il lettore; e quello spazio era bianco, era stampato per volontà dell’ autore. Quando vinse uno dei premi più mondani d’ Italia, il Premio Strega, egli pose una condizione: che in nessun caso si sarebbe presentato a ritirare il premio; e fu l’ editore ad andare. Fu uomo solitario, bizzarro, schivo non per timidezza, ma per una sorta di disdegno, di furore, di irrisione. Era nato a Pico, un borgo aspro, un poco banditesco, tra Roma e Napoli, ma poi era andato a vivere a Sanremo, dove poteva indulgere al suo grande e violento vizio, il gioco, che visse con ira e devozione dostoevskiane. Nella letteratura italiana di questo secoloè certo trai massimi, con Savinio, finalmente scoperto, con Delfini, ancora da scoprire. Non è mai stato scrittore popolare, ma il suo prestigio tra chi ama la letteratura è sempre stato assai alto. Ebbe elogi anche da chi gli era criticamente e intellettualmente estraneo. Ebbe la gloria di essere uno scrittore inutile. I suoi libri affascinano perché contengono attente contraddizioni, e la sua prosa magra, senza sorriso, ma in nessun caso «parlata», si porta appresso immagini di orrore, di sgomento, di decadenza, di spregio. Il nucleo del discorso di Landolfi – e lo si vede da questo splendido Mar delle Blatte – è il disgusto, l’ escremento, qualcosa che partecipa, assurdamente, delle qualità del metallico e del cadaverico, del siliceo e del decomposto. Talora la sua prosa si inasprisce di parole rare, sgarbatamente precise, vecchie in modo che direi marinaresco, non dotto; sanno di catrame e non di dizionario; mi delizia, questa prosa, quando si finge casuale, distratta, giacché una delle squisitezze di Landolfi sta proprio in questo maneggiare sciatto, indifferente, il segno, la materia della decomposizione. Cambia il piano, il livello del racconto senza ricorrere ad un alcun artificio drammatico, quasi i suoi racconti procedessero per distrazione; e infatti mi accorgo d’ aver toccato uno dei segreti della sua arte di narrare, di coltivare una «distrazione di precisione», di non guardare mai l’ oggetto del racconto, ma di usarlo – e intendo la parola anche per i connotati un poco sudici, sudore e corpo – tangenzialmente, come se in verità egli dovesse parlare d’ altro, qualcosa di non parlabile. * * * In Des mois (Vallecchi) Tommaso Landolfi riprende e svolge il tema strutturale di Rien va: il diario; intendendo con questo termine non già un regesto di eventi o emozioni quotidiane, ma anzi una invenzione retorica capace di smentire il tempo, di eludere quello svolgimento che sempre regge una trascrizione di accadimenti, per quanto fantastici e astratti….. Landolfi non è, non è mai stato lieto o felice fruitore del proprio lavoro di scrittore: ma, volta a volta, neghittoso e precipitoso. «Non ho forse mai avuto la pazienza (ed è forse mio merito) di tirare davvero a pulimento certe pagine, che nondimeno parvero a taluno particolarmente ben tornite… Ma un bel giorno, sentendomi prigioniero entro i miei quasi fisici risentimenti nei riguardi della pagina, un bel giorno deliberai di allentare il controllo sulla medesima, anzi di lasciarle addirittura le briglie sul collo, e giunsi (facendo come al solito un solato troppo lungi) ad una positiva sciattezza. Ebbene, lo credereste? Non per tanto cessai od ho cessato di essere definito «stilista»». In questo simulato e veritiero diario, Landolfi esperimenta una maniera preziosamente discontinua. Riluttante alla «ambigua lode» che comporta quella vanitosa targa di «stilista», sceglie di scrivere con ineguale, mutevole attenzione, così da lasciare continuamente sulla frase, sulla pagina, il duro segno di una estraneità, l’ oltraggio di un ineliminabile disordine, un tocco di materia povera e sorda inserita in altra squisita e capziosa; e questa impetuosa goffaggine conferisce un risentito, inamabile sapore alla sua prosa, e insieme una violenta, anche stizzosa drammaticità. Questa invenzione stilistica, svolgendosi in spaziosa ed articolata metafora, rimanda al tema carissimo a Landolfi, che delicatamente inquina queste pagine: la impurità. Codesta impurità non è solo la sgarbata delizia del solecismo stilistico, ma anche il costante svelarsi di una maliziosa frattura negli oggetti, il manieristico sconnettersi delle strutture, i minuti indizi del disordine, la nobile putredine che insieme matura e consuma, le instabili crepe negli ostinati edifici dell’ intelligenza e degli affetti. Donde la pertinenza, l’ astuzia retorica dell’ invenzione diaristica, che per la sua imprecisione di confini è la più idonea ad accogliere gli aurorali segni del sordido, la tenera vegetazione della decadenza. Il diario taglia i personaggi secondo la vena del naturale, intrinseco disonore. Segno emblematico di codesta impurità è la morte («Ed ho potuto pensare di ingannare la morte è dimenticarla, di eludere il vero scopo di queste pagine!», aveva scritto in Rien va ). La morte è un sintomo deforme, sconcio, insensato, una sporcizia nelle e tra le cose, una tabe fatale ed amica. A Landolfi è affatto estranea ogni fantasia di oggetti, di figure in qualche modo nobili e armoniose; non solo scopre, ma sceglie il disordine, la malattia, l’ inesattezza. Nessuna sindacale complicità con l’ umanità («in che scambietti si casca, degni della beatezza contemporanea, delle sue dolciastre concezioni sull’ umanità sofferente e coalizzata contro il male ed anelante e amorosa»), disgusto di qualsivoglia discorso collettivo, un brusco scostare e scostarsi dai fratelli («O tracotanti assistenti sociali e simile impronta specie generata da un bestiale concetto di ignominiosa fratellanza… »). Gran parte di Des mois, come già Rien va, è il rapporto con i figli: una bimba di cinque-sei anni, un maschio tra il primo e il secondo compleanno. Sfidato da queste presenze, tra le più ricattatorie della socialità affettiva, lo scrittore è dilacerato tra una tragica sollecitudine e la coscienza della metafisica inanità di qualsiasi affettuoso intervento. La vergogna della paternità si mescola ad una smaniosa devozione, una tenera abiezione. Usciti dal «malevolo nulla» i figli sono una presenza miracolosa ed accusatrice: riscattano e insieme ribadiscono la intrinseca impurità degli oggetti.

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Scritto da GIORGIO MANGANELLI

Da La Repubblica Cultura 09 luglio 2009


 

 

 

Author: Alieni Metropolitani

Gli Alieni Metropolitani non cercano soluzioni. A volte ne trovano… é irrilevante. Appartengono alla Società e con sguardo consapevole ne colgono l’inconsistenza. Non sono accomunati da ideologia, religione o stile di vita ma da una medesima percezione del mondo. Accettano i riti della vita, riuscendone a provare imbarazzo. Scrivere! Una reazione creativa alla sterile inconsistenza del mondo.

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