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Pulisce il vello. Un pettine d’osso. Maglie larghe passano piano, nel pelo scuro. Marrone. Si sta preparando. Fiasco di vino adagiato alla base della quercia. Il flauto, poco più in alto, ciondola lento, capovolto, tra le frasche del ramo. Presagio oscuro del futuro imminente.

Ascolta. Grida allegre di fanciulle in gioco. Nude. Alzano l’acqua a mani piene. Si rinfrescano. Seni tondi. Bagnati. Lunghi capelli profumati. Criniere di ovali perfetti. Labbra roride. Provocanti. Dispensatrici di baci. Dolci morsi. Sorrisi suadenti. Erotiche ninfe di fiume.

Lui preferiva le Driadi. Vivevano nelle querce. Ad ogni soffio di musica, appoggiato ad un tronco o sdraiato nell’erba, venivano a fargli visita. Rapite, lo ascoltavano fino all’ultima nota. In seguito lo ringraziavano, donandosi. Leggere come brezza. Sode come un giovane frutto.

Era riuscito a stringere un patto. “Statemi lontane per un poco” disse loro ” vi ricompenserò con musica divina. Innalzerò al cielo la vostra bellezza”.

A pochi passi dall’adiaccio, le potameidi. Come il fiume, affascinanti ed infide.

Riecheggiare allegro di risa. Carattere volitivo e passionale. Correnti profonde. Fanciulle pronte a travolgere.

Vivid, più di altre, ama le sfide. Si compiace della rovina dei propri amanti. Si concede in giochi impensabili ed impensati. Concupiscenza pura. Nella sua bellezza orgogliosa e violenta, non vi sono occhi che non cedano all’Ubris. Si alza. Un ultimo spruzzo in direzione delle compagne. Vivid onorata dalle potameidi. Piede bianco in terra bagnata. E’ sull’argine. Segue un passo, un altro, verso il prato. Sgocciola la chioma. Morbide onde di grano, strette a grandi volute. Dita affusolate. Forma un treccia imperfetta, a coprire un seno. L’altro é in vista. Rotondità carnosa. Capezzolo orgoglioso. Guarda il cielo. Curva ampia e generosa. Piccolo rigonfiamento del ventre. Fianchi piccola anfora.

“Non oggi Figlio di Zeus. Lasciami perdere”. Allontana il vino. Il fiaschetto rotola via, inclinando per poco i fili erbosi sulla propria scia. Si alza. Afferra il flauto. Scalda le gambe caprine. Qualche salto. Zoccoli roccia nel verde. Vello bruno al vento. Marsia. Il più ambizioso tra i satiri. Amante ubriaco dalla vita in giù. Prediletto delle muse, dalla vita in su. Magico suono di cilindri legnosi. Flauto soffio d’Eolo.

“Ho raccolto del nettare di vite. E’ forse tuo?”

“Vivid. Grazie. Tienilo pure. Spargilo al fiume, oppure ubriacati.”

“Non al fiume, sulla mia pelle… Ascolta. Amiche limniadi mi hanno confidato del tuo eroismo. Hanno accolto Apollo. Tra le acque e non solo. Dice ti punirà.. una punizione esemplare…”

“Non lo farà perla di fiume. Ho composto come tela, la prediletta d’Ulisse. Lontano. Distante da ogni usuale eccesso. Quindi mi comprenderai. Ora vado. Sono pronto alla sfida. Presto verrai a farmi visita sull’Olimpo”.

“Marsia come Perseo. Il flauto la tua spada. Contro Apollo in persona. Permettimi un piccolo dono. Tieni. L’ho nascosto oggi. Sotto la treccia. E’ tuo se vuoi. Tuo soltanto”.

Scosta la treccia. Porta le mani la seno. Con i palmi lo cinge alla base. Dolcemente, lo alza un poco, come a dire “Vieni. bacialo” con un piccolo sorriso.

Stava per confrontarsi con il Dio delle arti in persona. Incarnazione del Logos. Bello come il sole sul suo carro. Lo aveva sfidato. Muse a giuria. Si era preparato, forzando se stesso. Al riparo da vizi aveva suonato, composto, suonato e suonato ancora. Poteva forse cedere alla più incantevole tra le ninfe? Avrebbe avuto più corto il fiato? Avrebbe perso cura nell’armonia? Avrebbe inciampato nel ballo? O forse sbagliava? Forse doveva contrapporre l’Ubris sua compagna al Logos, eterno scontro tra luna e sole, giorno e notte? No. Un solo bacio, in fondo, non avrebbe tolto nulla. Solo parvenza di miele sulle labbra. Solo una goccia di pelle. Bianca premessa di vittoria. Bacio come preludio. Preludio dolce di dolcissima eternità.

Si china di poco, avvicinandosi al petto di lei, come volpe all’uva. Vuole accoglierne il frutto. Vivid sospira. Labbra virili sul suo petto. Sussulta. Porta la mano di lui al fianco. Gli afferra i capelli. Piccola vanità di sopraffazione. Indietreggia di poco. Con l’artificio, un inciampo. Cade lenta accompagnando il peso. Marsia ne vuole senza misura. Vuole ogni bocciolo, ogni liquore dalla svenevole delizia. Afferra le cosce. Ne sente la consistenza bella tra pollice e indice, tra indice e medio, tra palmo e polpastrello. Palpa senza garbo. Rimesta le carni strusciandosi ritmico. Bestia in calore. Affonda. Nitore calpestato nell’erba. Sudori alchemici. Sinestesia sublime. Voluttà. Rosa e capro: che sordida armonia!

Si rialza. Ripone il flauto al fianco. Si disseta dal fiasco ritrovato. La guarda stesa, sudata e sporca. Si stupisce. Si china. La bacia. Rientra in lei con le dita. “O sull’Olimpo o nell’Ade, ti porterò su queste mani”. Lingue anguilla, per qualche secondo ancora. “Devo andare. A presto Driade onorata”.

Aumenta il passo. Diviene salto, ardore e frenesia. Giunge alla radura. Tre donne di luce. Tre donne in girotondo. Ecco il centro: Il Febo, lo Splendente.

“Ben ritrovato, coraggioso amico. Sapevo avresti onorato il tuo impegno… con ritardo rilevo. Sei perdonato. Ti stavamo aspettando in musica, com’è d’obbligo, davanti a colui che vorrebbe scalzarmi”.

“Nessun oltraggio principe del Sole. Solo amore e determinazione per l’arte bella che dona il sogno e il battito. Solo Logos e sentimento”.

“Parole audaci. Suona dunque e scoprirai che il senno l’hai già perso nello schiaffo della sfida”.

Salta Marsia. Balza leggero come a cacciare il ritmo, a conquistare il cielo. Aria calda che percepisce umida. Sudore freddo. O forse brezza d’Olimpo, che già lo accarezza. Oppure gelida forbice, che si avvicina al filo. Falcate ampie. Comincia la danza. Sfiora primule e soffioni. Ne coglie la perfezione in un brivido e la fa sua, in ogni nota. Apollo sorride. Stupito? Divertito? Preoccupato? Arricchisce il certamen con la sua lira. “Ti accompagno soltanto Marsia. Nell’estasi meravigliosa che ci stai donando”. Abbassa le corna il fauno. Piccolo cenno di ringraziamento. Chiude gli occhi. Aumenta il ritmo nel soffio. Fremono i suoni come ali di farfalla. Si posano ovunque, anche tra i ricci del Dio. Ecco la meta! Quell’ultimo trillo finale, limpido e squillante come il grillo d’estate. Stringe più forte il flauto, come se volesse schizzare via, spaventato dall’impeto. Forse uno scherzo di Eolo, forse il sudore, entra nella sua narice un che’ d’agrodolce fatato; quella pozione di donna, in cui ha immerso le dita. Inciampa. Non per scivolare in carni sipide, ma per cadere. Cadere e basta.

Apollo riprende da quel trillo interrotto, come di cicala calpestata. Ruba l’armonia come l’ape il polline. Strappa la musica dal cuore di Marsia e la dirige lassù, dove abitano gli Dei. Le Ispiratrici, prima attente e stupite, ora inarcano i sorrisi, veleggiando di stupore. E’ davvero lui lo Splendente, il divino Musegete.

Marsia non ascolta più. La cera della disperazione gli aderisce ai timpani. Stordito guarda a terra. Terra che odora di sconfitta e di inganno. “L’ha mandata lui” pensa. “Non ne avevo bisogno coraggioso amico” – risponde il Febo Apollo – “Ora preparati”.

Migliaia di steli sbiancano di terrore, oppure di magia. Si allungano. Si illuminano. Fruste d’aurora tagliano l’aria. Si gettano affamate, sulle membra caprine. Rimane immobile Marsia. Sente che la terra lo sta chiamando. Nuova dimora dal ventre d’abisso. Chiude gli occhi. Cerca fallendo alcune soluzioni. “Farà in fretta”. Lo ripete a se stesso come una supplica. Si increspa la valle e diviene onda. Verde cavallona tracannante. Ingolla il mezz’uomo, sputandolo alla quercia: ritiro bello di ubriachi tramonti. Nell’iperbole scomposta del lancio, un ramo si fa gancio, anzi due. Gambe di vello sprofondano. Si squarciano. Non grida. Sa cos’è l’onore. A scempio esemplare uno scarabeo si fa gigante. Risalendo il corpo appeso, sfonda le labbra del musico. Le zampe anteriori si ancorano alla lingua.

Una driade appare dal tronco, richiamata dal Dio. Mani che si fanno radici. Affilati arborei. Tagliente incisone su cute di satiro. Precisa. Verticale strappo scotennante.

Apollo si avvolge le spalle del vello di Marsia. Corpo di luce, macchiato di sangue. “Hai cercato la perfezione, rovinando le cose belle che ti erano date”.

Vivid. Il prato come un triclino. Sdraiata, con una mano, saluta.

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Un racconto di Giorgio Michelangelo Fabbrucci

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